Il giudice monocratico del Tribunale di Latina ha pronunciato una sentenza che potrebbe segnare un passo molto importante nella battaglia contro il caporalato. 5 anni di reclusione più un risarcimento economico è la pena comminata al titolare dell’azienda di Borgo Sabotino, accusato di sfruttamento del lavoro nei confronti di Singh Balbir. Il bracciante di nazionalità indiana sei anni fa decise di denunciare e portare avanti la sua richiesta di giustizia anche grazie al decisivo appoggio di Marco Omizzolo che spiega perché il risultato ottenuto sia utile, ma non basti per fermare un fenomeno contro cui deve essere compatto l’impegno di lavoratori, società civile e istituzioni locali e nazionali.
Un contributo di Marco Omizzolo*
È stata senza dubbio una vittoria giudiziaria e non solo: del tema del caporalato, del padronato, della tratta e in generale dello sfruttamento in questa fase politica si parla sempre meno. L’attenzione sul fenomeno viene richiamata solo quando ci sono inchieste giudiziarie. Non si ritrova, invece, nel dibattito politico dove sarebbe fondamentale per compiere passi avanti nel contrasto anche da un punto di vista normativo. Al contrario possono avanzare i caporali, i padroni e i mafiosi o coloro che fondano il proprio business sullo sfruttamento dei lavoratori, compresi numerosi liberi professionisti.
Dovrebbe essere chiaro a tutti che se non progredisce la democrazia, crescono gli affari di criminali che trovano maggiori spazi per allargarsi in maniera indiscriminata, senza pagare mai fino in fondo le conseguenze criminali delle loro azioni e interessi economici. La conclusione della storia di Balbir mette purtroppo in evidenza anche questo aspetto: dopo sei anni di processo si è ottenuta una condanna superiore a quella richiesta dal Pubblico Ministero, Balbir è felice, ma sa che non potrà avere il risarcimento previsto dalla sentenza.
La lunghezza del processo e i vuoti normativi hanno consentito al padrone italiano di risultare nullatenente o quasi. Almeno questo è quello che sinora ci risulta. Si è segnato un punto, ma parallelamente dimostrato la necessità di promuovere norme che garantiscano realmente e completamente le persone sfruttate di qualunque nazionalità.
La cultura da invertire
Come non bastasse, si registra anche una persistenza della dimensione culturale distorta, opposta a quanto vorrebbe sancire la sentenza. Balbir lavora regolarmente in un’azienda agricola sempre nel territorio di Latina. Il datore di lavoro attuale, dopo l’eco mediatico della sua storia, lo ha severamente rimproverato, accusandolo di aver sbagliato a denunciare il suo padrone del tempo, mostrandosi irriconoscente. Purtroppo, oltre ai mafiosi direttamente coinvolti in una gestione criminale dell’economia del territorio, c’è una parte della società e dell’impresa in particolare che sceglie di stare dalla loro parte, contro chi denuncia e si ribella anche a costo della propria vita.
Per tutelare Balbir, si sta organizzando una scorta mediatica: il datore di lavoro deve sapere che Balbir non è solo. Dobbiamo ricordargli che una ritorsione contro Balbir prevederà, senza alcun dubbio, una reazione delle tante persone e personalità con le quali si è rapportato in questi anni, da Papa Francesco ai rappresentanti della Procura e della Prefettura.
Il nostro lavoro non si può fermare perché il contesto nel quale ci muoviamo resta condizionato dalla presenza di rappresentanti delle amministrazioni, dell’imprenditoria, liberi professionisti che riescono ad articolare le loro attività, aggirando regole e controlli in forme di caporalato che potremmo definire “5.0”.
Per questo noi abbiamo il dovere di aggiornare, mediante lo sviluppo di nuove metodologie di ricerca, il quadro analitico che esprime il padronato e il caporalato contemporaneo. Il rischio altrimenti è quello di interpretarlo e contrastarlo in modo tradizionale e cioè non adatto alla complessità che essi oggi riflettono, oppure di circoscriverlo a fenomeno solo sindacale, agricolo, periferico o primitivo. Purtroppo invece la sua organizzazione è intimamente connessa alle matrici del capitalismo contemporaneo.
L’attenzione oltre i confini
Lo sforzo di Tempi Moderni, che continua a lavorare nel territorio in modo sofisticato e molto operativo, è portare la sfida oltre la dimensione locale, puntando ad ottenere attenzione nazionale e internazionale sul fenomeno. È stato importante che la storia di Balbir sia stata ripresa dalla stampa indiana grazie al lavoro della stessa comunità che ha lavorato per costruire un’intervista centrata su tre aspetti fondamentali. Nei giornali indiani non è arrivata solo la notizia della sentenza, si è raccontata la verità del percorso di un cittadino indiano che ha subito gravi ingiustizie in Occidente, descritto in maniera diversa rispetto allo stereotipo della terra del lavoro che viene diffuso soprattutto dai trafficanti di esseri umani.
Balbir come simbolo dello sfruttamento, ma anche dell’orgoglio del suo paese per aver deciso di ribellarsi all’emarginazione, non con un atto istintivo, fuggendo, bensì attraverso una presa di coscienza collettiva e con atti di ribellione. Nella foto del giornale indiano ci sono io con lui a rappresentare le tante persone che hanno affiancato Balbir, compresi rappresentanti delle istituzioni democratiche, dai carabinieri alla Procura, nel percorso giudiziario in cui si è costituito parte civile.
Il messaggio che arriva è: dal padronato e dal caporalato non si scappa, ma si affrontano con gli strumenti messi a disposizione dalle istituzioni democratiche e con il coraggio che deve portare a spezzare le catene dell’isolamento e della ritorsione. Ci tengo a ribadire la gratitudine allo studio legale Salerni per la determinazione con cui hanno portato avanti la loro parte nel processo.
Il silenzio della politica
Non posso manifestare pari soddisfazione per il ruolo che hanno deciso di non avere le amministrazioni pubbliche coinvolte. La precedente giunta del Comune di Latina aveva tentato di costituirsi parte civile, ma la decisione non ha avuto seguito perché non prevista dal regolamento comunale: la bocciatura, però, non ha spinto a cambiare lo statuto. È rimasto quindi un brutto segnale l’assenza di volontà politica a intervenire su questo sistema criminale, considerando che sono diversi i processi nel Tribunale di Latina legati a casi di sfruttamento e caporalato.
Una disattenzione che è proseguita anche dopo la pronuncia della sentenza. Non è stato diramato alcun comunicato stampa in merito dalle amministrazioni comunali del territorio, nonostante una copertura mediatica nazionale e persino internazionale. D’altronde non sono arrivati attestati volti a proseguire su questa strada del contrasto e dell’impegno, neanche da parte di rappresentanti del governo regionale e nazionale, nemmeno dalle opposizioni. Il disinteresse politico pare trasversale.
Per gli amministratori locali schierarsi con Balbir potrebbe significare perdere consensi, non comprendono che, invece darebbero un segnale politico fondamentale per i criminali, ma anche per le vittime che non sono solo di nazionalità straniera. Inoltre, sosterrebbero concretamente l’impegno, che c’è ed è fondamentale, da parte di organi investigativi e giudiziari. Mostrare attenzione per lo sforzo profuso da agenti di polizia e magistrati, dichiarando la volontà di rendere il loro impegno ancora più forte e duraturo attraverso processi politici e normativi, attesterebbe realmente rispetto e riconoscenza per le istituzioni.
Dopo questa sentenza, quindi, la strada resta lunga, ma dobbiamo proseguirla in una dimensione politica e culturale nella quale devono trovarsi insieme, in maniera trasversale, tutte le forze e i soggetti coinvolti. Insomma, abbiamo una classe politica che trasversalmente si autodefinisce interprete del cambiamento. Con Balbir ha invece dimostrato di essere unita dell’indifferenza nei confronti di coloro che combattono padroni e caporali. Non è un bel segnale per il nostro Paese.
*sociologo, ricercatore Eurispes