Autonomia differenziata: analisi dei rischi di una divisione annunciata

L’approvazione al Senato del disegno di legge sull’Autonomia differenziata, che consente alle Regioni che ne fanno richiesta di ottenere competenze esclusive in 23 materie, oggi gestite dallo Stato centrale (oltre a quelle già esercitate), ha suscitato vivaci reazioni. Quali potrebbero essere le conseguenze che supportano le forti preoccupazioni di chi si oppone. Scuola, sanità, lotta alle mafie, sono alcuni dei punti su cui andrà ad incidere la riforma, contenuti nella riflessione dello storico Isaia Sales, docente di storia delle mafie. A sostenere la necessità e l’importanza dell’autonomia, ci sarà, invece la risposta del Presidente della Regione Veneto, Luca Zaia che pubblicheremo la prossima settimana. 

Il contributo di Isaia Sales *

Il provvedimento potrebbe sancire nei fatti la frantumazione dell’unità dell’Italia. Sono giustificate le preoccupazioni? Sì, oggettivamente sì. Il disegno di legge è stato voluto ostinatamente dalla Lega Nord ed è stato seguito passo passo dal ministro Roberto Calderoli, un partito e un esponente politico che nel corso degli anni hanno coltivato una particolare idea di autonomia delle Regioni, imperniata su due punti essenziali: 1) quelle del Nord sono Regioni di serie A (perché più ricche e più capaci) e hanno più diritti delle Regioni di serie B (quelle meridionali, naturalmente); 2) per questo motivo esse debbono trattenere in loco tutte le tasse pagate dai loro concittadini allo Stato centrale.

Insomma, viene ratificato il principio di “superiorità geografica” che autorizza maggiori diritti per alcuni abitanti della stessa nazione che vivono in diversi territori. È evidente che se questi due principi vengono attuati, l’Italia cessa di essere una nazione, se ne scardina la sua essenza e si dà vita a un nuovo sistema istituzionale in cui ciascuna regione può fare quello che vuole nei territori di propria competenza senza vincoli di condivisione e di compartecipazione agli obblighi che derivano dall’essere parte di una stessa nazione diversamente sviluppata e con un deficit di servizi pubblici concentrati in gran parte nelle regioni meridionali. Al potere nazionale si sostituisce una “poliarchia territoriale” regolata dalla competizione piuttosto che dalla condivisione di comuni obiettivi di crescita economica e civile.

Il sostegno a questa idea di autonomia, dichiarato da amministratori, simbolo di differenti schieramenti politici, testimonia anche del tramonto dei grandi partiti nazionali: la politica si è territorializzata. Ha fatto irruzione, con la Lega, quello che definisco “egoregionalismo”. Cioè l’egoismo del “veniamo prima noi” a cui si sono adeguati anche leader di altri partiti che non hanno più uno sguardo nazionale e lo hanno perso sulle disuguaglianze territoriali che si affermano.

Una storia che si è incrinata

Eppure, per molti anni il regionalismo aveva funzionato. Nella prima fase della vita delle Regioni, grosso modo dal 1970 al 1985, la conciliazione degli interessi nazionali con quelli territoriali è stata ampiamente praticata. Poi il regionalismo ha assunto un carattere divisivo, non una migliore articolazione e declinazione della nazione, ma un tentativo di trasformare le Regioni in piccoli Stati.

La Lega è stata protagonista di questa fase conflittuale del regionalismo con l’unità della nazione in tutta la sua (ormai) lunga presenza sullo scenario politico italiano. Non va dimenticato che quando nacque (nel 1984) la Lega si chiamava appunto “Lega Autonomista Lombarda”. In questi 40 anni di esistenza ha avuto coerentemente un obiettivo costante: operare una drastica revisione delle fondamenta unitarie della nazione.

L’autonomia differenziata è solo l’ultima versione di un lucido disegno avviato quasi mezzo secolo fa: rendere le divisioni territoriali dell’Italia irreversibili, sanzionarle con un nuovo sistema istituzionale basato sulla potestà delle regioni e sulla rarefazione del potere statale e centrale, assicurare un vantaggio cospicuo alle regioni del Nord (tornate ad essere sua esclusiva base elettorale). Scardinare lo Stato-nazione è stato il bersaglio principale della Lega. Questa strategia antiunitaria e antinazionale ha cambiato nome nel tempo.

Si è chiamata “Repubblica del nord”, “Indipendenza della Padania”, “Secessione”, “Devolution”, “Federalismo”, ma la sostanza non si è mai modificata: un autonomismo divisivo, un regionalismo differenziante e anti-egualitario, basato su di una specie di “ius loci” (diritto di territorio) delle Regioni più sviluppate. Perciò questo autonomismo spericolato ha molto a che fare con una specie di etno-regionalismo, perché trasforma le diversità territoriali (legittime e naturali) in stabili disuguaglianze sociali e civili.

L’indebolimento della lotta contro mafie e corruzione

Come non ricordare la proposta di Gianfranco Miglio, per anni il principale ideologo della Lega in materia, di trasformare l’Italia in tre Macroregioni (Nord, Centro e Sud): “Io sono per il mantenimento anche della mafia e della ‘ndrangheta. Il Sud deve darsi uno statuto poggiante sulla personalità del comando. Che cos’è la mafia? Potere personale spinto fino al delitto. Io non voglio ridurre il Meridione al modello europeo, sarebbe un’assurdità. C’è anche un clientelismo buono che determina crescita economica. Insomma, bisogna partire dal concetto che alcune manifestazioni tipiche del Sud hanno bisogno di essere costituzionalizzate.”

La riforma potrebbe coronare il ragionamento dell’ideologo leghista. La mafia è scimmia delle istituzioni, assume la forma necessaria in quel momento.  Il decentramento di competenze e risorse agevolerebbe gli obiettivi della criminalità organizzata. Non abbiamo una controprova, ma certamente il livello regionale è molto aggredibile. Penso soprattutto alla sanità che oggi è una delle maggiori attrazioni per la criminalità, sia dal punto di vista della corruzione che da quello del crimine.

Si rischia di dividere anche il sistema di contrasto alle mafie che oggi può contare su un lavoro condiviso a livello nazionale tra enti e organi di controllo. A farne le spese maggiori saranno le barriere a difesa della corruzione all’interno delle amministrazioni dei territori e quindi i servizi a disposizione dei cittadini che soprattutto al Sud potrebbero definitivamente precipitare.

Il Sud può sopportare una economia differenziata, ma non una differenziazione dei servizi. Ci può essere meno Prodotto interno lordo nel Sud, ma non è accettabile vedere l’80% dei bambini malati gravi prendere la via del Nord per curarsi. Aumentare ancora di più questo divario sarebbe terribile.

Verso un divario insanabile nell’istruzione nazionale

Altro tema sensibile per la tenuta democratica è l’istruzione. Nel 1996 il Ministro Calderoli aveva commentato i contenuti di un concorso pubblico con queste parole: “Si assumano i meridionali nelle scuole e negli enti pubblici solo dopo che saranno stati collocati tutti i padani che avanzeranno richiesta di impiego e gli insegnanti meridionali la smettano di protestare e pensino a lavorare. Considerando il tasso di analfabetismo nel Sud, riteniamo che del lavoro ce ne sia a sufficienza a casa loro”.

Se queste sono alcune delle basi ideologiche, la realtà impone di non seguirle. È impressionante, infatti, il dato degli alunni della scuola primaria senza mensa: nel Mezzogiorno quasi l’80% degli scolari non beneficia di alcun servizio mensa (con punte dell’87% in Campania e dell’88% in Sicilia).

Da ricordare che nel Sud più che l’orario prolungato si registra un largo uso dell’orario ridotto. Si perdono così 4 ore di scuola a settimana rispetto ai loro coetanei del Nord, cioè si fanno meno ore laddove di scuola c’è maledettamente bisogno. È evidente che alla mancanza di orario prolungato a scuola (per carenza di mense) può sopperire meglio un bambino di famiglia benestante, con genitori istruiti o ben inseriti nel lavoro, rispetto a chi vive in una famiglia non in condizione di sostituirsi a ciò che la scuola non è in grado di dare. Secondo una felice espressione di Federico Fubini un asilo per un bimbo “vale più di un bond” e senza adeguati servizi pubblici “si diventa quello che si è nati”.

Quanto incide l’assenza di mense per un bambino di Reggio Calabria rispetto a uno di Verona? E quanto incide la dispersione scolastica (non contrastata con mezzi adeguati) a Milano o a Palermo nella esposizione alle opportunità illegali di strada? Non possiamo negare che ci sia un rapporto tra il precoce abbandono della scuola da parte di migliaia e migliaia di bambini e ragazzi meridionali e l’altrettanto precoce reclutamento nella malavita organizzata?

Prendiamo Napoli. Tutto ciò che qui succede è il frutto dell’intreccio tra deprivazione scolastica, familiare e lavorativa. Quasi tutti i ragazzi coinvolti in attività delinquenziali sono “orfani di genitori vivi”, orfani di scuola, orfani di lavoro legale. Infatti, quando si leggono i dati di Napoli sul rapporto strettissimo tra tassi di abbandono scolastico, precedenti penali nel nucleo familiare, svolgimento di lavori precari e tassi di criminalità minorile, non si può che restare impressionati da una così implacabile connessione. I ragazzi sono formati più dal circolo ricreativo che dalla scuola, più dal bar che dall’aula, più dal gruppo di amici rionali che dai professori.

Una delle più stridenti incongruenze del nostro Paese è che una parte di esso (pari a ben 20 milioni di abitanti e al 41% dell’intera superficie geografica) vive in condizioni sociali, economiche e civili così differenti da farla sembrare quasi una nazione a parte, un’Italia minore. Se nascere in un posto diverso della stessa nazione determina di per sé un handicap di partenza, ciò è nei fatti contro la Costituzione e la dignità.

 

*docente di “Storia delle Mafie” all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, autore di saggi e inchieste