Il Professor Enzo Ciconte, docente di storia della criminalità organizzata all’Università di Roma Tre e consulente delle Nazioni Unite, commenta la recente sentenza della Corte di cassazione relativa al primo troncone del processo denominato “Crimine-Infinito”.
Sono stati in tanti a sottolineare l’importanza della recente sentenza della Corte di cassazione che ha reso definitive le condanne nel troncone del processo cosiddetto Crimine-Infinito che prese le mosse nell’estate del 2010 ad opera delle procure della repubblica di Reggio Calabria e di Milano con un lavoro di raccordo coordinato da Giuseppe Pignatone e Ilda Boccassini. È un primo troncone che riguarda la Lombardia; l’altro, che riguarda la Calabria, approderà in Cassazione a breve.
Forse il fatto d’essere solo uno spezzone di qualcosa di molto più complesso ha indotto molti commentatori ad enfatizzare il fatto che la sentenza sembra aver certificato – con il crisma della decisione passata in cosa giudicata – l’esistenza della ‘ndrangheta in Lombardia.
Tale modo di guardare le cose è fuorviante e rischia di non far comprendere la reale portata della sentenza.
La ‘ndrangheta esiste in Lombardia da alcuni decenni, e non è stata una scoperta recente. Commissioni parlamentari, giornalisti, studiosi, associazioni antimafia locali e nazionali, storici ne hanno scritto a più riprese.
Ma soprattutto si è mossa la magistratura che tra gli anni 1992-1994 è stata capace di scompaginare le famiglie mafiose allora presenti in Lombardia colpendo quasi 2.000 mafiosi, una cifra enorme. Mi scuseranno altri valorosi magistrati, ma basti pensare alle storiche indagini dei pubblici ministeri Nobili, Romanelli e Spataro per avere idea di quello che s’era messo in movimento. Le loro indagini ressero al vaglio processuale fino in Cassazione. E dunque già in quegli anni la ‘ndrangheta era stata colpita sul piano processuale applicandole l’articolo 416 bis del codice penale.
Perché allora la ‘ndrangheta s’è riprodotta negli anni successivi è materia di riflessione storica e politica.
Le inchieste di allora colpirono singole famiglie di ‘ndrangheta operanti nel territorio lombardo, e ciò per la semplice ragione che all’epoca la ‘ndrangheta non si era dotata di una struttura unitaria che coinvolgeva l’insieme delle ‘ndrine a livello calabrese, nazionale ed internazionale.
La novità è l’esistenza della ’ndrangheta come organizzazione di tipo mafiosounitaria, insediata sul territorio della provincia di Reggio Calabria; l’esistenza di un organo di vertice che ne governa gli assetti,assumendo o ratificando le decisioni più importanti; l’esistenza di proiezioni, oltre il territorio calabrese, di cui la più importante è “la Lombardia”, secondo il modello della “colonizzazione”, ed i rapporti tra la casa madre e tali proiezioni “esterne” in Italia e all’estero.
Rispetto al passato è una vera rivoluzione, perché nella relazione redatta dalla Suprema Corte di Cassazione a commento del d.l. n. 4/2010 è scritto che “la giurisprudenza ha riconosciuto la qualifica di associazione di tipo mafioso alle singole cosche piuttosto che alla ’ndrangheta intesa come organizzazione unitaria”.
Ora non è più così, ed è questo fatto che rende la recente sentenza un fatto storico.