Il principio
Le organizzazioni mafiose riescono ad imporsi attraverso le estorsioni per l’accaparramento di opere nel campo dell’edilizia e mediante l’imposizione delle proprie ditte nel settore degli appalti pubblici da realizzare sul proprio territorio. È questo il principio affermato dalla quinta sezione della Cassazione penale con la sentenza n. 51746 pubblicata il 16 novembre 2018.
Il caso
Il Tribunale della libertà di Reggio Calabria rigettava una richiesta di riesame avanzata da un imputato avverso il provvedimento emesso dal Gip con il quale un indagato era stato sottoposto alla misura della custodia cautelare a causa della partecipazione, nella veste di promotore ed organizzatore, al sodalizio di tipo mafioso denominato “Sposato-Tallarida”, cosca appartenente ad un’articolazione territoriale della ‘ndrangheta calabrese operante nel territorio di Taurianova e nelle zone limitrofe. Secondo l’ipotesi accusatoria, l’imputato aveva assunto, all’interno della predetta cosca Sposato-Tallarida, importanti compiti di decisione e di pianificazione delle attività criminali da compiere e degli obiettivi da perseguire con riferimento all’intera organizzazione criminale, nel settore delle estorsioni, delle intestazioni fittizie di beni e per l’aggiudicazione degli appalti pubblici e privati. Altre contestazioni riguardavano anche il presunto concorso dell’imputato in un’estorsione commessa in danno di un’impresa operante nel settore degli appalti pubblici, i cui titolari erano stati costretti ad effettuare l’acquisto delle merci – necessarie per la realizzazione di alcuni lavori pubblici che erano stati affidati alla medesima impresa appaltatrice – presso alcune aziende riconducibili alla famiglia dell’indagato. Quest’ultimo era infine accusato di aver realizzato attività di intestazione fittizia di alcune società, i cui titolari sembravano essere, formalmente, altri soggetti: si trattava, in particolare, di un’impresa di conglomerati cementizi, di un’impresa edile, di un esercizio di vendita di generi alimentari e di una ditta di commercio all’ingrosso di materiali di costruzione.
Contro il provvedimento cautelare il ricorrente aveva proposto ricorso ma, con la pronuncia in esame, la Corte di Cassazione dichiara il gravame inammissibile e condanna il ricorrente al pagamento di ….. a favore della Cassa delle Ammende.
I motivi del ricorso
Avanti alla Corte di Cassazione era stata lamentata, in particolare, la presunta erronea applicazione della legge penale sotto il profilo della gravità indiziaria per il reato di associazione di tipo mafioso punito ai sensi dell’art. 416-bis del codice penale: secondo la difesa dell’indagato, addirittura, non era stato nemmeno dimostrato il fatto che la cosca Sposato-Tallarida esistesse realmente in quanto dagli atti sembrava emergere che:
- gli interessi dell’associazione mafiosa non si erano mai concretizzati su uno specifico settore di interesse ma, al più, vi erano stati dei progetti per la riqualificazione per la gestione del cimitero comunale, che non erano tuttavia stati realmente realizzati dall’indagato e dai suoi sodali;
- non era stata riscontrata l’effettiva esistenza di un clima di omertà derivante da un reale ed effettivo dominio degli Sposato all’interno dell’ambito territoriale di Taurianova e non erano emersi elementi che potessero realmente dimostrare come la cosca degli Sposato sarebbe stata in grado di condizionare il mercato di quella zona;
- l’indagato aveva instaurato ed aveva poi mantenuto legami con la predetta cosca a causa nei suoi rapporti di parentela con alcuni dei relativi affiliati, senza che ciò potesse costituire, di per sé, il presupposto per la configurabilità di un reale ed adeguato quadro di gravita indiziaria in relazione agli addebiti ex art. 416-bis;
- la presunta estorsione commessa in danno di un’impresa operante nel settore degli appalti pubblici avrebbe dovuto essere in realtà “ridimensionata”, tenuto conto del fatto che, a fronte dell’un appalto aggiudicato all’impresa estorta per un corrispettivo di circa 120.000,00 euro, l’indagato si sarebbe dovuto “accontentare” di imporre una fornitura del tutto modesta, per l’importo complessivo di soli 1.500,00 euro (importo nel quale – aggiunge la difesa dell’indagato – era ovviamente ricompreso anche il costo del materiale fornito e delle correlative spese accessorie): alla luce dell’esiguità dell’importo estorto – se paragonato all’importo complessivo della commessa aggiudicata all’impresa costretta a ricorrere alle imprese vicine alla cosca – sarebbe derivata la sostanziale irrilevanza dell’episodio, e ciò al di là del tono “tracotante” utilizzato dall’indagato in alcuni dei colloqui intercettati dalle Forze dell’ordine;
- colui che aveva svolto le funzioni di intermediario tra l’indagato e l’impresa estorta aveva peraltro ricevuto dal medesimo indagato soltanto un “accenno” alla volontà di rifornire quell’appaltatore, accenno espresso nel corso di un incontro del tutto casuale di cui l’intermediario non avrebbe tuttavia fatto reale cenno né all’impresa estorta né ad altri;
- tutti i membri della famiglia Sposato, compreso l’indagato, risultavano essere titolari di imprese, il che sarebbe valso ad escludere – ancora secondo la tesi del ricorrente – l’esistenza di una reale volontà fraudolenta volta ad intestare fittiziamente questa o quell’impresa ad alcuni familiari piuttosto che ad altri.
La decisione
Con la pronuncia in rassegna, come accennato, la Corte di Cassazione dichiara il ricorso inammissibile, rilevando, in primo luogo, che la configurabilità dell’associazione di tipo mafioso, come pure dei “reati fine” la cui commissione era stata ipotizzata dagli inquirenti, riguardava profili di puro merito che non avrebbero potuto essere sindacati da parte della medesima Cassazione: ed infatti, il Tribunale, riprendendo gli elementi già posti in luce dal Gip all’interno dell’ordinanza con la quale era stata disposta la custodia in carcere, aveva diffusamente chiarito come il gruppo facente capo alla famiglie Sposato e Tailarida costituisse, nei fatti, una costola dell’associazione Fazzalari-Zagari-Viola ed aveva documentato l’esistenza di episodi – compresi fatti di sangue – che risultavano essere oggettivamente indicativi del prestigio criminale acquisito dall’indagato e dalla sua consorteria familiare nell’area di Taurianova: era stata quindi efficacemente dimostrata l’esistenza di una radicata tendenza del predetto gruppo criminale ad “effettuare estorsioni per l’accaparramento di opere nel campo dell’edilizia” nonché ad imporre “le proprie ditte nel settore degli appalti espletati sul territorio”, riuscendo in tal modo “ad infiltrarsi nei gangli della pubblica amministrazione”.
Anche la vicenda del progetto di gestione del cimitero comunale era stata ricostruita dal Gip – ed era stata confermata dal Tribunale – mediante una precisa indicazione dei dettagli e dei relativi particolari ed aveva efficacemente evidenziato come il progetto degli Sposato di acquisire la predetta concessione aveva ricevuto dapprima l’avallo dell’amministrazione comunale originariamente in carica (che, a tali fini, non aveva bandito, intenzionalmente, la relativa gara pubblica) ed era stato poi bloccato dalla Giunta comunale successivamente eletta, con la conseguenza che si erano verificate talora attività di intimidazione e, in altri casi, pressioni politiche mosse, all’interno della maggioranza comunale, da parte di componenti e di affiliati alla predetta cosca mafiosa.
Parimenti – prosegue la Suprema Corte – nei provvedimenti impugnati erano state puntualmente rappresentate alcune violente esternazioni verbali dell’indagato (indicative di ben più di una mera tracotanza di carattere) volte a far sì che l’impresa estorta si approvvigionasse, forzosamente, di cemento e di altri materiali dalle ditte vicine alla cosca mafiosa: non appariva pertanto rilevante, sotto tale profilo, il valore asseritamente modesto delle forniture imposte all’impresa estorta poiché, al contrario, proprio l’esiguità delle subforniture imposte all’impresa appaltatrice dimostrava la tendenza del clan a non tollerare alcuna intromissioni degli appalti da realizzare all’interno del “proprio” territorio.
Infine, benché tutti i soggetti formalmente intestatari delle imprese ritenute di fatto riferibili all’indagato fossero stati comunque stabilmente impegnati in autentiche attività imprenditoriali – così come asserito da parte ricorrente – nondimeno le numerose risultanze derivanti dalle conversazioni intercettate riferite nella motivazione dell’ordinanza impugnata avevano consentito di identificare l’indagato come il reale “dominus” e gestore di tutte le predette società, considerato che era quest’ultimo a gestire, in via esclusiva, i rapporti con clienti, fornitori e banche, ad istruire i congiunti sulle operazioni da realizzare (sia sotto il profilo della logistica, sia per quanto concerne la concreta realizzazione delle diverse attività), ed a fornire ai vari congiunti le indicazioni circa la gestione quotidiana dei mezzi e degli operai, nonché ad effettuare i pagamenti mediante l’utilizzo del libretto degli assegni e, da ultimo, a stabilire prezzi e commesse interfacciandosi con i consulenti esterni: in tale contesto, gli altri familiari, pur essendo formalmente intestatari delle varie società, erano dunque apparsi quali meri “prestatori d’opera”, privi di qualsivoglia autonomia decisionale ed operativa e risultavano essere strettamente vincolati al rispetto delle disposizioni impartite dall’indagato, il quale, al contrario, aveva di fatto rivestito il ruolo di reale gestore delle varie società.
(a cura della dott.ssa Ilenia Filippetti,
Responsabile Sezione Provveditorato della Regione Umbria, Presidente di Forum Appalti)