Cenni introduttivi e normativa di riferimento. Con il presente contributo si intendono analizzare le più recenti e rilevanti pronunce delle sezioni penali della Corte di Cassazione in tema di c.d. whistleblowing (le decisioni della Cassazione sono al momento limitate a pochi casi, anche in considerazione del fatto che l’istituto della segnalazione viene impropriamente utilizzato per provvedimenti disciplinari ritenuti ingiusti, mancate progressioni di carriera o procedure concorsuali illegittime etc).
Come noto, infatti, con legge n. 179/2017 recante «Disposizioni per la tutela degli autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell’ambito di un rapporto di lavoro pubblico o privato», la Camera ha approvato la modifica dell’articolo 54-bis del decreto legislativo n. 165/2001 delineando un complesso sistema di tutele in favore del lavoratore denunciante. Dal canto loro, i Giudici di Piazza Cavour, già pochi giorni dopo l’entrata in vigore della novella, hanno avuto modo di pronunciarsi sul tema affrontando taluni profili nodali della nuova disciplina.
Com’è evidente, le sentenze in commento si sono focalizzate sugli aspetti processualpenalistici disciplinati dal legislatore più di recente. Infatti, nonostante l’impronta marcatamente giuslavoristica della riforma, il novellato art. 54-bis del d.lgs. n. 165/01 prende in considerazione anche aspetti di natura processuale legati alla tutela del segnalante. Nello specifico, al nuovo comma 3 dell’art. 54-bis si è previsto – tra le altre cose – che «nell’ambito del procedimento penale, l’identità del segnalante è coperta dal segreto nei modi e nei limiti previsti dall’articolo 329 del codice di procedura penale». Il rimando codicistico, dunque, consente di comprendere secondo quali modalità debba essere garantita la copertura dell’identità del whistleblower, soprattutto per quanto riguarda la dimensione temporale: tale disposizione prevede la regola generale del segreto per l’intera fase, cioè fino al momento della conclusione delle indagini preliminari (il cui relativo avviso è previsto dall’art. 415-bis c.p.p.).
Ebbene, movendo proprio dal dato normativo, la Suprema Corte – nelle prime due pronunce di seguito riportate – ha potuto definirne sia l’ambito di applicabilità in concreto, sia le più significative ricadute processuali, ad esempio, in materia di intercettazioni.
Le ‟sentenze gemelleˮ: l’utilizzabilità della segnalazione a fini di intercettazione. Con due sentenze del 31 gennaio 2018 (n. 9041 e 9047) la sesta sezione della Suprema Corte è intervenuta per valutare la legittimità delle operazioni di intercettazione dapprima disposte, e successivamente convalidate dal g.i.p., sulla base della segnalazione di illeciti perpetrati da parte di dipendenti infedeli, addetti al servizio di ispezioni e certificazioni ipotecarie dell’Agenzia del Territorio. Nel caso di specie, le difese eccepivano – tra l’altro – che ai fini della legittimità e utilizzabilità delle intercettazioni, la segnalazione di condotte illecite di cui il pubblico dipendente sia venuto a conoscenza in ragione del proprio rapporto di lavoro, non fosse idonea ad integrare il requisito della gravità indiziaria di cui all’art. 267 c.p.p. (necessaria per l’autorizzazione a disporre le operazioni di intercettazione di conversazioni o comunicazioni telefoniche e di altre forme di telecomunicazione, ovvero di comunicazioni tra presenti) in quanto da qualificarsi come documento da fonte anonima. Al contrario, l’organo giudicante riteneva che l’esposto interno del whistleblower era stato correttamente ritenuto utilizzabile dal Tribunale del riesame ai fini dell’integrazione del requisito della gravità indiziaria ex art. 267 c.p.p., «poiché estraneo alla sfera di operatività dell’art. 203, così come dell’invocato art. 333 dello stesso codice». Tali argomentazioni sono testualmente riprese in più passaggi dei provvedimenti per sostenere che la segnalazione, interna all’ufficio, di possibili violazioni commesse sul luogo di lavoro da dipendenti pubblici, inoltrata mediante il c.d. ‟canale whistleblowingˮ al responsabile per la prevenzione della corruzione, è pienamente utilizzabile per ritenere esistenti i «gravi indizi di reato» di cui art. 267 c.p.p.
In altre parole, è stato affermato che la segnalazione fatta all’autorità anticorruzione dal dipendente non è qualificabile come denuncia anonima e, pertanto, non è soggetta al divieto di utilizzazione di cui all’art. 333, ultimo comma, c.p.p. ai sensi del quale, di regola, «delle denunce anonime non può essere fatto alcun uso». Tale informazione, infatti, se comunicata ai sensi dell’art. 54-bis d.lgs. n. 165/2001, garantisce al whistleblower soltanto il riserbo sull’identità nell’eventuale procedimento disciplinare a carico dell’incolpato, dovendosi ritenere che l’anonimato del segnalante è certamente escluso nell’ambito del procedimento penale, in cui, come specificato nella nuova formulazione del citato art. 54-bis, il segreto sull’identità del segnalante opera soltanto «nei modi e nei limiti previsti dall’art. 329 del c.p.p.». La Cassazione, peraltro, precisa come il c.d. “canale whistleblowing” sia un sistema che da un lato garantisce la riservatezza del segnalante ma che, dall’altro lato, ne consente in ogni caso l’individuabilità attraverso l’identificazione delle credenziali d’accesso al sistema di segnalazione. Peraltro, anche il secondo comma dell’articolo 54-bis del d.lgs. 165/2001 nella formulazione vigente prima dell’entrata in vigore della legge n. 179/2017 era inequivoco nel limitare l’anonimato del denunciante (che, in realtà, è solo riserbo sulle generalità) unicamente all’ambito disciplinare.
In altri termini, la Cassazione ha chiarito che «il canale del whistleblowing garantisce l’anonimato del segnalante sul piano disciplinare, ferma restando la necessità di rivelare le sue generalità laddove la segnalazione assurga a vera e propria dichiarazione accusatoria in ambito penale e l’individuazione del whistleblower sia assolutamente indispensabile per la difesa dell’incolpato». In sintesi, quindi, tale segnalazione rappresenta un documento certamente utilizzabile ai fini della configurabilità del requisito della gravità indiziaria necessaria per disporre le intercettazioni e, al contempo, viene qualificata dalla Suprema Corte in termini di vera e propria dichiarazione accusatoria proveniente da fonte individuabile.
I limiti della tutela predisposta in favore del whistelblower. A distanza di pochi mesi la Cassazione (Cass. pen., sez. V, n. 35792 del 21 maggio 2018) ha avuto modo di tornare sul tema occupandosi di un ulteriore e diverso aspetto legato alle modalità con le quali il segnalante può venire a conoscenza dell’illecito.
In questo caso, infatti, l’imputato del reato di cui all’articolo 615-ter c.p. (accesso abusivo ad un sistema informatico e telematico) che si era introdotto abusivamente nel sistema informatico dell’ufficio pubblico cui apparteneva, ricorreva per cassazione sostenendo che tale accesso fosse giustificato dall’asserita finalità di sperimentazione della vulnerabilità del sistema informatico dell’Amministrazione. Il pubblico dipendente deduceva la sussistenza della causa di giustificazione, anche in forma putativa, dell’adempimento del dovere, fondando tale motivo di doglianza sul vincolo di fedeltà – derivante dal d.lgs. n. 165/2001, artt. 54 e 54-bis – che lega il pubblico dipendente all’Amministrazione.
A tal proposito, la Cassazione ha affermato in maniera lapidaria che «l’attività di acquisizione di informazioni da parte del dipendente in violazione della legge non rientra nella tutela del whistleblowing». La decisione della Corte, ancora una volta, muove da argomentazioni di tipo sistematico e prende in considerazione la ratio delle modifiche apportate al sistema di protezione del denunciante dal legislatore con la legge n. 179/2017, cioè quella di «tutelare il soggetto, legato da rapporto pubblicistico con l’amministrazione, che rappresenti fatti antigiuridici appresi nell’esercizio del pubblico ufficio o servizio». Tale protezione, dunque, non opera nei confronti di chi viola la legge per raccogliere prove di illeciti in ambito lavorativo, «non essendo ipotizzabile una tacita autorizzazione a improprie e illecite azioni di ‟indagineˮ».
Considerazioni conclusive. A ben vedere, gli arresti della Suprema Corte si inseriscono, con ineccepibile rigore giuridico, nel contesto normativo delineato dal legislatore del 2017, effettuando un’esegesi della disciplina alla luce dei principi cardine del sistema processualpenalistico.
In particolare, con le prime due pronunce del gennaio 2018, la Cassazione ha effettuato un vero e proprio giudizio di bilanciamento degli interessi in gioco, id est la tutela del segnalante e la garanzia del diritto di difesa per l’incolpato. Infatti, l’adozione di un modello di processo accusatorio quale è quello italiano trova nella possibilità di conoscere la provenienza delle dichiarazioni rese a proprio carico uno dei suoi elementi fondativi, soprattutto dopo la costituzionalizzazione dei principi del “giusto processo”. La Corte, dunque, ha correttamente escluso la configurabilità di una tutela in favore del whistleblower che avrebbe comportato una significativa lesione del diritto di difesa dell’accusato. Dall’altro lato, però, tale limitazione è destinata a ripercuotersi inesorabilmente in termini di efficacia del sistema, in quanto si richiede al dipendente di segnalare eventuali pratiche illecite nella consapevolezza di perdere l’anonimato qualora da tale denuncia dovesse derivare un procedimento penale. Nella novella di novembre 2017, infatti, è previsto che il pubblico dipendente che segnala condotte illecite «non può essere sanzionato, demansionato, licenziato, trasferito, o sottoposto ad altra misura organizzativa avente effetti negativi, diretti o indiretti, sulle condizioni di lavoro determinata dalla segnalazione». Tuttavia, se è vero che proprio in questi casi la tutela giuslavoristica dovrebbe attivarsi immediatamente, è altrettanto vero che talvolta le misure ritorsive nei confronti del segnalante possono manifestarsi nei modi più disparati, sfuggendo anche alla catalogazione legislativa.
Quanto alla sentenza di maggio 2018, invece, la Corte ha delimitato il perimetro nell’ambito del quale possono essere conosciuti gli illeciti da parte del segnalante. L’istituto del whistleblowing, infatti, nonostante sia plasmato sul modello dell’art. 361 c.p. (che prevede il delitto di omessa denuncia di reato da parte del pubblico ufficiale), «se ne distingue in riferimento ai presupposti ed all’ambito di operatività, nella doppia declinazione della tutela del rapporto di lavoro e del potenziamento delle misure di prevenzione e contrasto della corruzione». In questi termini, dunque, deve essere interpretata la volontà del legislatore di «delineare un particolare status giuslavoristico in favore del soggetto che segnala illeciti» e «favorire l’emersione, dall’interno delle organizzazioni pubbliche, di fatti illeciti, promuovendo forme più incisive di contrasto alla corruzione». Tale emersione, tuttavia, dovrà verificarsi, come ovvio, secondo i consueti limiti del penalmente rilevante non potendosi configurare la scriminante dell’adempimento del dovere per il pubblico dipendente che intenda trasformarsi in una sorte di “investigatore” interno all’Amministrazione.
Peraltro, sul punto occorre sempre tener presente che le suddette tutele non sono garantite nei «casi in cui sia accertata, anche con sentenza di primo grado, la responsabilità penale del segnalante per i reati di calunnia o diffamazione o comunque per reati commessi con la denuncia di cui al comma 1 ovvero la sua responsabilità civile, per lo stesso titolo, nei casi di dolo o colpa grave», così come previsto al comma 9 del “nuovo” art. 54-bis del d.lgs. n. 165/2001.
In ogni caso, nonostante il complessivo aumento delle segnalazioni nei primi mesi del 2018 (da gennaio a maggio 2018, i fascicoli aperti dall’A.N.A.C. sono stati 334, mentre in tutto il 2017 sono stati 364), soltanto in due casi le segnalazioni hanno determinato un invio degli atti alla Procura della Repubblica.
Ottobre 2018
(a cura di Francesco Giacchi, avvocato)