Premessa. All’interno della Relazione conclusiva, un capitolo (4.10.2) è dedicato al tema del regime di detenzione speciale di cui all’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario, già oggetto di una particolare attenzione da parte delle Commissioni d’inchiesta nelle passate legislature. Le audizioni hanno consentito di approfondire le criticità e le congruità normative della prassi, alla luce delle modifiche introdotte con la legge n. 94 del 2009, prendendo in esame anche la vicenda delle conversazioni intercettate tra Riina e Lorusso, il cosiddetto “protocollo farfalla” e la relativa relazione del COPASIR e la circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (DAP), volta ad assicurare l’uniformità di trattamento dei detenuti sottoposti al regime speciale. Qui di seguito sono sintetizzate le principali conclusioni della Commissione.

L’attualità del regime speciale. Come riportato nella relazione, nell’epoca del post-stragi si registrava un generale apprezzamento del regime speciale; successivamente tale trattamento è stato a tratti avvertito come “sproporzionato” o “abnorme”, poichè le efferatezze del sistema mafioso appaiono temporalmente lontane. Peraltro il regime del 41 bis continua a rappresentare un corollario insostituibile della legislazione antimafia italiana, in quanto finalizzato a contrastare i rapporti tra associati detenuti e organizzazione criminale, evitando che i necessari momenti di “socialità” tra detenuti ovvero i colloqui con familiari e avvocati costituiscano l’occasione per la trasmissione di messaggi e la prosecuzione di relazioni. Anche la Corte costituzionale e la Corte EDU hanno ribadito la legittimità di tale istituto perché rispondente alle esigenze di ordine pubblico e di sicurezza dello Stato, pur sottolineando la necessità di porre alcuni precisi limiti alla sua estensione.

La carenza delle strutture carcerarie. Sulla base dell’esperienza sul campo, la legge del 2009 ha previsto che i detenuti al 41 bis “siano ristretti all’interno di istituti a loro esclusivamente dedicati, collocati preferibilmente in aree insulari, ovvero comunque all’interno di sezioni speciali e logisticamente separate dal resto dell’istituto” (comma 2 quater). Gli indispensabili adattamenti delle infrastrutture carcerarie sono stati però realizzati in modo parziale (ancora nel 2015 i nuovi penitenziari previsti in Sardegna erano lungi dall’essere disponibili), tenuto conto dell’elevato numero dei detenuti sottoposti al regime speciale. E la circolare del DAP, mirante “standardizzare alcune prassi al precipuo fine di assicurare uniformità al trattamento carcerario speciale in tutti gli istituti penitenziari”, è sembrata adeguarsi alle forti carenze strutturali, rendendo problematica la puntuale applicazione della normativa. Proprio per non vanificarne la ratio, la relazione indica alcune priorità, proposte e riflessioni sul tema.

I colloqui interni e la comunicazione con l’esterno. L’articolo 41 bis (lettera f del comma 2 quater) prevede che la comunicazione tra persone soggette al medesimo regime speciale possa avvenire solo in gruppi di quattro persone al massimo. Nella formazione di tali gruppi appare essenziale mantenere il ruolo consultivo della Direzione nazionale antimafia (che possiede tutte le informazioni necessarie allo scopo), superando alcune ambiguità presenti nella circolare del DAP che sembravano attribuire tale responsabilità alla sola struttura carceraria. La Commissione contesta inoltre alcune prassi che faciliterebbero i contatti con l’esterno tramite i colloqui con i familiari (ad esempio con i figli e nipoti minorenni) e sottolinea la necessità di disciplinare in modo diverso anche i colloqui con i difensori, con particolare riferimento ai casi di “difese plurime” (quando il medesimo avvocato assiste più soggetti sottoposti al regime speciale) o di “difese di parenti” (quando  il difensore è un congiunto del detenuto e, in quanto tale non è neppure registrabile né intercettabile); da regolamentare in modo puntuale anche le modalità di registrazione dei colloqui dei detenuti sottoposti al 41 bis (chi sono i soggetti che devono procedere all’ascolto, quali controlli vadano esercitati, come conservare la documentazione audio e video, chi sono i soggetti legittimati ad accedere a tale documentazione etc).

In sintesi, afferma la Commissione, se con i colloqui diventasse possibile “comunicare” agevolmente con l’esterno, tutte le altre restrizioni del carcere duro apparirebbero inutilmente vessatorie.

La giurisprudenza di sorveglianza. La relazione sottolinea l’assenza di uniformità interpretativa ed il rischio che si finisca col prestare un’attenzione maggiore ai singoli individui, piuttosto che cogliere i segnali di una macro-strategia. A seguito delle modifiche normative del 2009, è stata centralizzata presso il Tribunale di sorveglianza di Roma la competenza sulle impugnazioni avverso il decreto con cui il Ministro della giustizia applica o proroga il regime detentivo speciale, mentre per questioni diverse dalla legittimità del provvedimento di applicazione e revoca del regime speciale la competenza appare quella dei tribunali territoriali. Tale distribuzione delle competenze, insieme al variegato programma normativo, ha però fatto emergere il problema della difformità giurisprudenziale e ha portato a chiedersi anche il motivo per cui il Tribunale di sorveglianza di Roma è competente per l’applicazione del regime speciale, ma non per le questioni connesse.

L’invecchiamento della popolazione carceraria.  Il progressivo invecchiamento della popolazione carcerariacoinvolge l’idea di una sorta di necessario bilanciamento tra la tutela della salute del detenuto da una parte (cioè, i diritti del singolo) e la continua tutela dell’ordine pubblico dall’altra (cioè, la tutela della collettività), strettamente correlata alla pericolosità dei diversi soggetti. Come sottolineato dalla Commissione, “se i mezzi di cui lo Stato dispone non fossero in grado di garantire ai detenuti […] i fondamentali diritti di cui agli articoli 27 e 32 della Costituzione, il sistema finora realizzato per interrompere i rapporti dei mafiosi più pericolosi con l’esterno, si troverebbe nell’arco di poco tempo in un imbuto che vanificherebbe il regime speciale”.

L’ “inflazione” del regime speciale. Ormai da qualche anno il numero dei detenuti sottoposti al regime del 41 bis si attesta intorno al numero di 700 unità.  Un primo problema è legato al mancato adeguamento degli istituti penitenziari; un secondo problema attiene, invece, ad una più attenta valutazione dei presupposti della norma, al fine di circoscrivere il numero dei soggetti interessati (e, in tale ambito, una riflessione va fatta sul sistema delle proroghe, il cui tasso appare spesso legato a un rischio di “automatismo”).

Rapporti tra detenuti e servizi di sicurezza. La Commissione si è interessata dell’argomento, anche alla luce di presunti “protocolli” che avrebbero aggirato il divieto di un rapporto diretto fra detenuti e servizi di sicurezza (non coinvolgendo, cioè, l’autorità giudiziaria), al fine di verificare se tali rapporti siano avvenuti e se “il sistema legislativo e le sue concrete applicazioni [hanno] potuto consentire la creazione di un circuito di informazioni parallele” provenienti dai più pericolosi detenuti per mafia, sottratto a ogni controllo giudiziario e, pertanto, capace di inquinare le indagini della magistratura  o per perseguire fini diversi dal mero scopo preventivo. Nella relazione sono evidenziati alcuni passaggi ritenuti accertati: in particolare, l’operazione “Farfalla”, che prendeva avvio in seguito a un accordo intercorso fra l’allora capo del Sisde e l’allora capo del DAP, portando tuttavia ad un’attivazione finalizzata a ritrovare il cadavere di una persona scomparsa per lupara bianca. Il piano “Rientro”, invece, che fu avviato nel dicembre 2005 e concluso senza alcun esito, nel luglio 2016. Secondo la Commissione “è più che evidente che siccome le norme non consentivano e non consentono interlocuzioni di sorta fra detenuti e servizi, né comunque forme di colloquio con reclusi diverse da quelle disciplinate dalla legge, il sistema escogitato non era altro che uno strumento per aggirare la legislazione in vigore attraverso contatti “mediati” o addirittura diretti”.

(a cura di Antonia Albanese – studentessa del Master in Parlamento e politiche pubbliche della Luiss Guido Carli)