Premessa.  La Commissione bicamerale sul ciclo dei rifiuti, nell’ambito degli approfondimenti sulla regione Veneto, con particolare riferimento all’inquinamento da sostanze perfluoroalchiliche (PFAS), ha svolto una serie di audizioni: il 10 maggio 2016 la Commissione ha ascoltato l’assessore all’ambiente e protezione civile della regione Veneto, Gianpaolo Bottacin, il 12 maggio 2016 il Procuratore della Repubblica presso il tribunale di Vicenza, Antonino Cappelleri., il 16 maggio 2016 i sindaci dei Comuni di Brendola, Sovizzo, Lonigo, Sarego, Trissino, i direttori generali delle aziende Acque del Chiampo, Centro Veneto Servizi, Acque Vicentine e Acque Veronesi; il 18 maggio 2016 è stata la volta della direttrice del dipartimento ambiente e prevenzione primaria dell’Istituto superiore di sanità, Loredana Musmeci; infine il 26 maggio 2016 la Commissiione ha concluso il ciclo delle audizioni ascoltando la direttrice generale per la salvaguardia del territorio e delle acque del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, Gaia Checcucci. Qui di seguito sono sintetizzati i contenuti più rilevanti di queste audizioni (per la relazione finale, approvata il 23 giugno 2016, leggi questa scheda), nonché dell’audizione del 6 luglio 2016 del direttore generale della direzione prevenzione sanitaria presso il Ministero della salute, Raniero Guerra e della rappresentante di ENEA, Marina Mastrantonio..

La presenza di PFAS nei Comuni interessati. Per PFAS si intende un gruppo di composti prodotti per alcuni decenni da fabbriche chimiche, usati in genere per l’impermeabilizzazione di pentole e tessuti. Una vicenda che, non ufficialmente, si trascina dalla fine degli anni Settanta e che ha visto la contaminazione delle falde acquifere di numerosi comuni delle province di Vicenza, Padova e Verona.

La scoperta “istituzionale” di sostanze pefluoroalchiliche negli acquedotti risale al 2013, “più precisamente il 21 maggio 2013 ci è pervenuta una comunicazione dalla direzione generale prevenzione della regione Veneto. La prima comunicazione del Ministero della salute che ci è stata mandata era una richiesta di informazioni circa l’ipotesi che queste sostanze fossero presenti da qualche parte nell’ambito delle acque della regione Veneto” specifica nella sua audizione Bottacin. Qualche giorno dopo aver ricevuto lo studio, sono stati informati i gestori, le società che gestiscono il servizio idrico integrato.  “L’area di contaminazione individuata era di circa 180 chilometri quadrati ed era compresa in una trentina di comuni”. Dall’estate sono stati installati sistemi di filtraggio nelle opere di presa degli acquedotti, con lo scopo di ottenere l’abbattimento delle sostanze attraverso l’installazione di filtri a carboni attivi.

La criticità dei limiti sulle acque potabili e la riduzione delle emissioni. Bottacin sottolinea la criticità dell’assenza “in Italia dei limiti di legge per queste sostanze, così come da decreto legislativo n. 152 del 2006”. Criticità che sarà sollevata anche nelle successive audizioni. “Abbiamo preso come riferimento iniziale i valori di performance indicati dall’Europa, che sono differenti. Non è infatti previsto un unico valore per tutta la famiglia di sostanze…. Ciò significa che queste sostanze hanno degli effetti differenti. Ovviamente, ci siamo interfacciati con l’Istituto superiore della sanità” evidenzia l’assessore.  I valori indicati dall’Istituto sono, per il PFOS, 30 nanogrammi per litro, per il PFOA, PFBA e PFBS, 500 nanogrammi per litro.

Pur senza certezze giudiziali, sono stati messi in atto alcuni accorgimenti per ridurre l’emissioni dalla presunta fonte di queste sostanze, l’azienda Miteni indicata dall’ARPAV, attraverso “una barriera idraulica costituita da otto pozzi di emungimento, di portata e profondità variabili, che consente l’abbassamento dei livelli freatici e diminuisce la possibilità di contatto delle acque sotterranee con i terreni più superficiali entro il perimetro aziendale…le acque emunte dal sistema di pozzi sono convogliate all’interno dello stabilimento e utilizzate come acque di processo o acque di raffreddamento”.   Per le acque di raffreddamento e le acque di scarico la Regione ha imposto tramite AIA (Autorizzazione Integrata Ambientale) i medesimi limiti sopradescritti per le acque potabili.

In merito alla soluzione definitiva del problema Bottacin sottolinea la necessità di far riferimento a tabelle ministeriali con limiti ben identificati sulla presenza nelle acque delle sostanze sopracitate. Inoltre i filtri a carboni attivi non rappresentano una soluzione strutturale: l’assessore evidenzia come sia decisivo “andare a prendere l’acqua dove è pulita…per realizzare questo, è necessario fare un investimento rilevante, con delle opere acquedottistiche importanti che oltre alle risorse richiedono anche dei tempi”. Tempi stimati in almeno cinque anni.

Il lato giudiziario. Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Vicenza specifica che al momento dell’audizione sono aperti 3 procedimenti: uno contro ignoti, un secondo iscritto come modello 45 (indagine conoscitiva) e un terzo “a carico di imputato noto, che risponde a una recente denuncia firmata tra l’altro da parecchi parlamentari”. Il Procuratore evidenzia anch’esso la criticità dell’assenza di limiti imposti dalla legge sulle sostanze citate (“in sostanza rimane un vuoto sotto il profilo della previsione penale”).

Spiega dettagliatamente Cappelleri nella sua audizione:  “L’Italia recepisce una direttiva che ritiene il PFOS sostanza evidentemente pericolosa. Tuttavia, nel recepire col decreto legislativo del 2015 questa direttiva, non la traduce in un aggiornamento delle sostanze vietate ai sensi del decreto del 2006 che definisce i reati. Allora, in sostanza, lo stato della normativa, è questo: l’Italia si impegna a migliorare urgentemente la qualità delle proprie acque e, tuttavia, al di là di quest’impegno, non introduce una variazione alla vacanza penale che esisteva e che tuttora esiste nella normativa specifica. Detto in poche parole, non ho un reato specifico da poter far valere in questo senso…. C’è, in verità, nel 2015 l’aggiornamento del codice penale con i delitti ambientali, che vanno dal 452-bis in seguito…. Neppure a norma di questa nuova legislazione posso ritenere quelli precedenti nel mio ambito di interesse penale. Ovviamente, questo complica molto gli accertamenti e l’attribuzione di specifiche responsabilità in merito. Questo non ci esime dall’analisi di ciò che è avvenuto da parte della Miteni nell’ultimo anno, da maggio 2015 fino a oggi, per comprendere se può essere inquadrato nel reato di alterazione dell’ambiente o ancor peggio nel reato di disastro ambientale”.

Le audizioni dei Comuni interessati. Nel comune di Brendola sono stati installati “filtri a carboni attivi in grado di depurare l’acqua”. Sono stati allacciati alla rete comunale anche i pozzi privati ed è stato avviato “un monitoraggio tramite analisi del sangue, che ha confermato la presenza di valori elevati di tali sostanze nei soggetti residenti nelle aree coinvolte”. Il Sindaco Renato Ceron ha ribadito “per la soluzione del problema, sia in merito alla tutela della salute e al monitoraggio delle persone esposte per tanti anni, sia per la protezione delle produzioni agrarie e zootecniche, rispetto alle quali il nostro territorio è ricco di eccellenze”, la richiesta di “un contributo straordinario da parte dello Stato”.

Il Sindaco di Sovizzo, Marilisa Munari, ha sottolineato come la storia del suo Comune sia complementare. Sono state emanate una serie di ordinanze (nel 2013, 2014 e 2016) per vietare di attingere all’acqua dei pozzi per scopi potabili e la produzione alimentare. Il costante biomonitoraggio ha messo in luce la presenza di PFAS nel siero dei cittadini dei Comuni di Sovizzo, Creazzo, Altavilla, Brendola, Lonigo, Sarego e Montecchio (con una particolare concentrazione negli ultimi 4 Comuni citati). “Questo ci preoccupa perché gli studi pubblicati il 5 maggio di quest’anno dall’ENEA evidenziano che esiste una evidente e preoccupante conseguenza sulla salute per quanto riguarda la presenza di queste sostanze”.  Per il Sindaco le principali criticità sono:

  1. a) la mancanza di un limite di legge sulla concentrazione minima delle sostanze in esame nell’acqua destinata al consumo umano
  2. b) un limite sulla possibilità di utilizzare l’acqua contaminata per uso irriguo
  3. c) la necessità di realizzare o potenziare nuovi acquedotti che attingano ad acqua di falda non inquinata.

Il Sindaco di Lonigo, Luca Restello, ha messo in evidenza uno studio condotto dai medici dell’ISDE (Associazione Medici per l’Ambiente), secondo cui nella città di Lonigo “vi è una presenza di PFAS più alta (2.403 nanogrammi litro) rispetto ad altri paesi limitrofi o non interessati da questo inquinamento, con valori certamente più elevati dal punto di vista dell’inquinamento da queste sostanze, di infarti del miocardio, linfomi Non Hodgkin, Alzheimer, malattie dell’apparato genito-urinario, di Parkinson, di tumori a fegato, seno, ovaie, testicoli e rene, con altre malattie connesse: vi è, insomma, un’incidenza maggiore”.

Il Sindaco del Comune di Sarego, Roberto Castiglion ha dichiarato che nel ‘suo’ territorio “si sono verificati i valori più alti in assoluto per quanto riguarda le sostanze perfluoroalchiliche trovate nell’acqua di falda, negli alimenti, ma anche nel sangue delle persone. Abbiamo due pozzi presenti nel nostro comune che hanno registrato valori di PFAS superiori ai 2.000 nanogrammi per litro. Ricordiamo che i valori di performance dell’Istituto superiore sono 500 nanogrammi, quattro volte superiori”. I rappresentanti del Comune di Trissino hanno tracciato la storia di alcune aziende presenti sul territorio e che hanno trattato le sostanze che avrebbero finito per contaminare le falde.

Il direttore generale di Acque del Chiampo Spa, Alberto Piccoli, ha spiegato che si tratta di una società a partecipazione pubblica che si occupa della gestione del servizio idrico integrato (fognatura, depurazione e acquedotto) nei 10 comuni soci che fanno parte dell’ATO valle del Chiampo. Il DG spiega che nel 2013, all’epoca della comunicazione della Regione sulla presenza del PFAS, “l’acido perfluoroottansolfonico (PFOS), l’acido perfluoroottanoico (PFOA) e le sostanze perfluoroalchiliche in generale (PFAS) non erano noti, tant’è che nemmeno ARPAV aveva la strumentazione per ricercarli. Le prime analisi che sono state commissionate da ARPAV ci sono arrivate nel luglio del 2013”. Il DG elenca una serie di interventi messi in atto per arginare l’emergenza e di interventi già in programma per consentire agli abitanti di approvvigionarsi a pozzi non contaminati. “Non faccio il riepilogo dei costi per singola voce ma, tra interventi eseguiti e interventi che abbiamo in programma – come vi ho detto, abbiamo approvato il progetto definitivo – stiamo parlando di poco meno di 2,4 milioni di euro. A questi vanno aggiunti, finché non troveremo altre fonti non contaminate, 98.000 euro all’anno di gestione e costo degli impianti con filtri a carboni attivi”. I rappresentanti di Centro Veneto Servizi, Acque Vicentine e Acque Veronesi hanno illustrato un analogo punto della situazione su monitoraggio, valori delle sostanze contaminanti e interventi messi in atto sui territori da essi gestiti.

L’Istituto Superiore di Sanità e la procedura seguita. Il 18 maggio è toccato a Loredana Musumeci, direttrice del dipartimento ambiente e prevenzione primaria dell’Istituto superiore di sanità, essere ascoltata in audizione. “Il problema è emerso da uno studio del CNR, commissionato dal Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare. Il Ministero evidenziò la problematica immediatamente alla regione che si recò al Ministero della salute. Il Ministero della salute consigliò, alla regione stessa, rivolgersi all’Istituto per un supporto tecnico-scientifico, su come affrontare la prima emergenza che era la presenza di queste sostanze”. La Musumeci specifica che “non essendo definito un limite”, la procedura prevista è che l’ISS fornisca un proprio parere sottoposto al Consiglio superiore di sanità che, in caso di ok, lo comunica al Ministero, il quale a sua volta lo gira all’Ente che lo ha richiesto. A quel punto il parere fornito dall’ISS sui limiti da rispettare assume una cogenza normativa, specifico solo per quell’area

I limiti imposti per le acque potabili.  “Siccome sono sostanze per le quali c’è ancora qualche elemento di dubbio dal punto di vista scientifico, noi abbiamo preferito parlare di limite di performance perché a oggi con le tecnologie disponibili, abbiamo ritenuto che queste ottemperavano al principio cautelativo…quindi abbiamo dato un limite per i PFOS di 0,03 microgrammi per litro. Questo è il limite e penso sia il più basso che è riscontrabile anche in base ai dati di letteratura. Parliamo solo di acque potabili. Poi, per il PFOA il limite è di 0,5 microgrammi per litro e per gli altri PFAS, quindi anche quelli a catena corta, è sempre di 0,5 microgrammi per litro… Queste, come sostanze persistenti PFOS, hanno una particolarità: sono inquinanti organici persistenti….
Questo dà ai PFOS, anche in termini tossicologici, alcune particolarità…quindi una volta che sono entrati nell’organismo umano, l’escrezione di queste sostanze non è così semplice. In particolar modo, nel genere maschile i PFOS permangono con tempi maggiori rispetto al genere femminile appunto per il loro meccanismo di trasporto, interno all’organismo umano”.

Allargando lo sguardo al resto d’Italia, l’esponente dell’ISS spiega che il problema delle sostanze in oggetto è che ”non vengono ricercate perché non fanno parte dei parametri della norma, del decreto legislativo n. 31. In Veneto, li hanno ricercati perché è scattato l’allarme con lo studio del CNR”. In merito alla situazione attuale delle acque potabili nelle province di Vicenza, Padova e Verona, la Musumeci evidenzia che “oggi, a seguito dei parametri e dei limiti dati dall’Istituto e dal Ministero della salute e all’installazione di questi filtri a carboni attivi, le acque distribuite sono a norma, cioè rientrano in questi limiti”.

La contaminazione delle ULSS 5 e 6. Tra le criticità sollevate nell’audizione viene evidenziata la mancanza di dati sull’esposizione alle sostanze contaminanti prima del 2013. “Noi abbiamo fatto uno studio di biomonitoraggio umano per individuare e valutare quanta fosse l’esposizione della popolazione, anche in seguito al consumo di acqua contaminata presumibilmente da dieci o quindici o vent’anni – evidenzia la Musumeci –  Abbiamo georeferenziato e mappato tutti questi dati e, a questo punto, sono state individuate le aree a maggior contaminazione che sono quelle che si riferiscono alle ULSS 6 e le ULSS 5… Si è deciso di fare questo studio di biomonitoraggio prelevando il sangue, perché ci serve il siero per poter vedere la presenza di queste sostanze, di circa 620-630 persone, di cui 120 allevatori che possono essere potenzialmente considerati degli iperesposti… Quello studio è ancora in corso e non è terminato… mentre abbiamo terminato lo studio sulle 504 persone delle aree esposte e non esposte che ha fatto emergere che la ULSS 5 è quella maggiormente contaminata e con il maggior numero di esposti. È emerso anche che la ULSS 6, che è sotto la ULSS 5, idrogeologicamente e geograficamente parlando, è meno contaminata”. Sugli alimenti è stato realizzato, in collaborazione con l’ARPA un primo campionamento “né sistemico né particolarmente ragionato” su 200 prodotti alimentari, da cui è emersa una presenza di PFAS. Tuttavia, conclude sul punto la Musumeci, “noi oggi non abbiamo, su basi della letteratura e delle conoscenze ed esperienze specifiche maturate a livello nazionale, nozione precisa del passaggio nella catena alimentare”.

Il decreto legislativo del 2015 e gli Standard di Qualità Ambientale. Il 26 maggio è stata ascoltata Gaia Checcucci, direttrice generale per la salvaguardia del territorio e delle acque del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare. Sull’autonomia decisionale della Regione in merito all’individuazione dei limiti allo scarico, da imporre per il “rispetto degli obiettivi di qualità con riferimento a ogni sostanza inquinante o per gruppi di famiglie o sostanze affini”, la direttrice sostiene che la regione “avrebbe potuto farlo già dal decreto legislativo n. 152 del 2006, a maggior ragione può farlo adesso perché il decreto legislativo n. 172 del 2015, che recepisce gli SQA (Standard di Qualità Ambientale, ndr) per le acque superficiali, individua espressamente….Nel decreto legislativo n. 172 del 2015 non indichiamo solo diamo i valori, gli SQA, ma diciamo di fare attenzione al fatto che per quei tipi di sostanze è necessario un piano di monitoraggio e un piano delle misure specifico per l’abbattimento delle sostanze stesse”.

Un accordo di programma Ministero – Regione Veneto. Si sta lavorando ad un accordo di programma tra il Ministero dell’Ambiente e la Regione Veneto, compreso l’obiettivo di abbattimento delle sostanze PFAS, con le azioni da compiere per il perseguimento dello scopo. Esprimendo soddisfazione per “l’approccio condiviso”, la Checcucci spiega l’importanza di individuare “contenitori programmatori” in grado di “raccogliere finanziamenti specifici formalizzandoli nel perseguimento di quegli obiettivi e che il ministero ha dichiarato da subito di impegnarsi a reperire, auspicando ovviamente che anche gli enti territoriali facciano altrettanto”. L’obiettivo finale, oltre all’abbattimento, la riduzione, il trattamento, lo scarico di queste sostanze, anche “l’individuazione di fonti di approvvigionamento alternative”.

Le problematicità confermate dal Ministero. Come sottolineato in alcune delle precedenti audizioni, anche secondo il responsabile del Ministero della Salute le problematicità del caso sono essenzialmente tre:

1) l’assenza “dei valori di riferimento collegati a un sicuro danno alla salute. Abbiamo dei valori di riferimento che riguardano indici di performance, quindi valori che variano, in questo momento, a livello europeo a seconda del Paese, ovvero dello Stato membro che li adotta”

2) “in tutti gli allegati relativi alla normativa che concerne gli inquinanti presenti nei corpi idrici non ci sono tutte le sostanze su cui c’è un possibile interesse”

3)   le possibili infiltrazioni nella falda.  “Tutta l’acqua generata e utilizzabile in loco deve essere trattata, o comunque rivalutata, come fonte primaria di acqua potabile. Non ci sentiamo, in questo momento, di raccomandare che questo sia il caso. Abbiamo con la regione Veneto raccomandato fortemente di limitare l’approvvigionamento idrico da quelle zone. Ci preoccupa molto anche la questione relativa alla matrice alimentare”.

Guerra sottolinea che tanto l’Organizzazione Mondiale della Sanità che la Commissione Europea, interpellati, hanno preso tempo perché alcune delle questioni sopraesposte sono “ancora sotto verifica”. Al contempo è stato richiesto: a) di esercitare ancora con il principio di massima cautela l’approfondimento tecnico e scientifico che è stato lanciato; b) di attendere, sollecitando l’Unione europea, la Commissione e l’OMS a garantirci l’accesso ai risultati della valutazione quanto prima, in modo da potere normare il tutto.

L’indagine ENEA. L’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile ha sviluppato un’indagine sulla situazione di criticità relativa al presunto inquinamento da sostanze PFAS nella regione Veneto.  E’ stato ricordato che “per quanto riguarda le vie di esposizioni, la principale per l’uomo è rappresentata dall’ingestione di acqua potabile e di cibo contaminati. Questi non possono essere metabolizzati dai mammiferi ma solo eliminati mediante escrezione e possono attraversare la barriera placentare. All’interno del corpo si legano alle proteine e si distribuiscono principalmente nel siero del sangue, nei reni, nel fegato e sono stati rilevati anche nel latte materno. Il tempo di dimezzamento nell’uomo è compreso tra due e nove anni. L’esposizione prenatale è attualmente considerata particolarmente rischiosa per i possibili effetti tossici”

“Abbiamo individuato l’area, costituita da 24 comuni, in cui la regione Veneto, nella sua pubblicazione, indica quali di essi hanno superato i livelli di performance per i PFAS; una seconda area che presenta livelli PFOS superiori a quelli di performance, cioè 30 nanogrammi per litro, e che comprende 19 comuni; vi è poi una terza area, di 70 comuni che ci è servita come controllo, con assenza di contaminazione da parte di queste sostanze. I comuni in esame appartengono sia alla provincia di Vicenza, sia a quelle di Padova, Verona e Rovigo”.

“Da questo studio emerge che nei comuni contaminati da PFAS ci sono degli eccessi statisticamente significativi della mortalità per alcune cause che non andrebbero sottovalutati. La letteratura scientifica suggerisce, infatti, una possibile associazione tra queste patologie ed esposizione a PFAS. Essendo questo uno studio epidemiologico su base geografica, quindi descrittivo, non può assolutamente dimostrare nessi causali tra l’esposizione alle sostanze in questione e gli effetti che abbiamo rilevato. Sarebbe opportuno un approfondimento dell’indagine mediante impiego di flussi sanitari di incidenza di patologie, come le schede di dimissione ospedaliera, i dati del registro tumori e quelli del registro delle malformazioni congenite, che appunto in Veneto esistono. Sarebbe anche importante procedere con indagini di tipo analitico, impiantando, per esempio, degli studi specifici sulle popolazioni residenti nella zona in esame”.

 

(ultimo aggiornamento: 2 settembre 2016)

(a cura di Claudio Forleo, giornalista)