OLTRE L’ERGASTOLO OSTATIVO. ANNUNCI, DUBBI E DIFFICOLTÀ

Prosegue il colloquio di Avviso Pubblico con la professoressa Stefania Carnevale per approfondire il tema riguardante la riforma della disciplina prevista dall’articolo 4 bis. In particolare, si esamina il decreto – legge presentato dal Governo, individuando i punti critici ed evidenziando le peculiarità del sistema penitenziario italiano.
A COLLOQUIO CON STEFANIA CARNEVALE *

La prima osservazione che mi viene da fare in merito riguarda il modo in cui è stato presentato. Il decreto riprende integralmente il testo della precedente proposta di legge volta a superare la presunzione assoluta di pericolosità e, con essa, la radicale «ostatività» della mancata collaborazione con la giustizia. Non mantiene quindi inalterato, come è stato invece annunciato, il regime dell’ergastolo ostativo, altrimenti il provvedimento non avrebbe risposto alle richieste della Corte costituzionale, candidandosi a una sicura illegittimità.

Il decreto mira, seppure a malincuore, a superare quel sistema, inserendo tuttavia un intricato groviglio di paletti e condizioni che non possono non sollevare ulteriori obiezioni. Senza dubbio viene meno, almeno astrattamente, il divieto assoluto di concessione di misure extramurarie per chi non abbia collaborato con la giustizia. D’ora in poi, il non collaborante, anche se ergastolano, potrà avanzare richiesta di accesso agli strumenti di progressiva risocializzazione, liberazione condizionale compresa, e sarà sottoposto al vaglio di un giudice che dovrà in concreto esaminare se sussista il pericolo attuale e futuro di legami con la criminalità organizzata.

È questione seria, serissima, e delicata. Il vaglio dovrà essere tanto approfondito quanto la posta in gioco richiede. Ma ci tengo a sottolineare che si tratta di misure che sono alla base di un sistema penitenziario improntato, come in tutti i paesi civili, al recupero sociale dei condannati con strumenti graduali e controllati.

L’obiettivo della detenzione

La pena deve tendere alla rieducazione: non è affatto detto che ci si riesca e che queste misure vengano effettivamente concesse, ma in carcere si deve lavorare in questa direzione. L’ostatività ha fatto sì che proprio i condannati per i reati più gravi venissero lasciati indietro nel trattamento volto al reinserimento sociale.

In carcere si sono proposte comunque attività e si è proceduto a osservazioni della personalità, ma educatori, psicologi, assistenti sociali e personale di polizia non sono sinora mai stati impegnati, fuori dai casi di collaborazione impossibile/inesigibile, in quegli approfondimenti e in quelle sintesi interdisciplinari che precedono le decisioni del giudice sulle misure extramurarie.

E senza questo passaggio, in cui si rimettono insieme i pezzi del percorso penitenziario, la conoscenza degli operatori delle persone condannate resta più blanda. È un paradosso: logica vorrebbe che si lavorasse di più su chi ha commesso i reati più gravi per tentare ogni via di recupero. Il meccanismo ostativo ha in fondo favorito il contrario. Ora occorrerà recuperare un ritardo notevole, procedendo a osservazioni complesse della personalità, nel rispetto di vincoli e condizioni estremamente severi.

Il labirinto dei requisiti

Questo è il profilo più delicato. Il decreto-legge corre su un crinale sottile. La quantità e la natura dei requisiti richiesti, il labirinto di condizioni, le previsioni collaterali, rischiano di rendere il vaglio giudiziale non effettivamente possibile, come chiedono Corte costituzionale ed europea, ma solo fittiziamente possibile.

Intanto il decreto provoca un generale “appiattimento” delle condizioni previste per accedere ai diversi benefici, che la legge vorrebbe graduali e graduati. Si richiede, per ergastolani e non, e per ogni misura richiesta – da quelle che comportano qualche ora fuori dal carcere a quelle che preludono alla liberazione – una pletora di requisiti e verifiche tali da far sfumare l’idea di progressione nel trattamento. Ad esempio l’integrale risarcimento del danno era sinora preteso per la sola liberazione condizionale, e non per i benefici di minor livello, come i permessi premio o la semilibertà, che potevano prescinderne.

Chi è del tutto indigente può essere esonerato dal pagamento, ma dovrà comunque compiere gesti di riparazione verso le vittime. Può anche accadere, e non è evenienza rara, che queste fossero a loro volta appartenenti a gruppi criminali organizzati: molti ergastolani ostativi erano parte di gruppi di fuoco che si sono scontrati con cosche avverse. Capita che i parenti delle vittime, rimasti in vita, siano in analoghe condizioni, ossia detenuti per reati ostativi, se affiliati a loro volta alle organizzazioni mafiose. In questo caso, saranno parimenti sottoposti a obblighi risarcitori e riparatori.

Quanto alla presentazione di elementi tali che consentano al giudice di escludere collegamenti con il gruppo criminale di appartenenza o il rischio di riallacciarli, la legge pone una serie di condizioni rigide ma vaghe. Si richiede ad esempio di dimostrare la rottura del legame non solo con le organizzazioni criminali, ma anche con il «contesto» nel quale il reato è stato commesso. Si tratta di espressione estremamente generica che dovrà essere riempita di contenuti dalla giurisprudenza.

La norma varata elenca una serie di elementi che possono aiutare a dimostrare questo distacco, ancora piuttosto generici: circostanze personali e ambientali, ragioni eventualmente dedotte a sostegno della mancata collaborazione, revisione critica della condotta criminosa e ogni altra informazione disponibile. La motivazione della mancata collaborazione è «eventuale» per non costringere chi non abbia mai parlato per paura di ritorsioni a fornire spiegazioni che potrebbero porlo comunque in una situazione di rischio.

La legge elenca anche cosa non basterà a dimostrare la rottura del vincolo e il superamento della presunzione di pericolosità: la condotta carceraria, la partecipazione al percorso rieducativo e la mera dichiarazione di dissociazione dall’organizzazione criminale, che sono tuttavia i principali elementi che è in grado di addurre una persona detenuta da molto tempo. È difficile immaginare altre informazioni da sottoporre al giudice, salvo evidenziare l’assenza prolungata di contatti con appartenenti a gruppi criminali.

A questo proposito va anche sottolineato che, per gli ergastolani ostativi non collaboranti, si allungano i tempi, già molto lunghi rispetto ad altri paesi, per proporre istanza di liberazione condizionale: da 26 anni si passa a 30 e, in caso di concessione, il periodo di libertà vigilata all’esterno passa da 5 a 10 anni.

La ricostruzione richiesta

In merito al rapporto con il passato criminale, il decreto prevede che prima di decidere il giudice debba interpellare, tra gli altri, il pubblico ministero del luogo in cui è stata pronunciata la sentenza di primo grado oltre alla Direzione distrettuale e nazionale antimafia. La giurisprudenza in materia spesso mette in luce come questi pareri diano esclusivamente conto del fatto che l’organizzazione sia ancora attiva e del ruolo che il condannato rivestiva quando ne era parte. Bisognerebbe invece sempre attualizzare le informazioni, chiarendo cosa, qui ed ora, può lasciare intendere che l’associazione tenterà di riavvicinare il condannato o che il condannato tenterà di riavvicinarla.

Non di rado le informazioni trasmesse ai giudici di sorveglianza ricostruiscono minuziosamente la carriera criminale passata, che tuttavia già risulta dalle sentenze di condanna, senza soffermarsi a sufficienza sul presente. Non tutti gli ergastolani ostativi sono dei boss, o delle figure carismatiche di riferimento (sono più di 1200 persone). In questi casi, dovrebbe essere ancor più puntuale l’identificazione di attuali ragioni di rischio di rientro nelle attività criminali organizzate. Si prevede poi una complessa istruttoria sulle condizioni patrimoniali, sul tenore di vita e sulle attività dei familiari e delle persone ad essi «collegate» (espressione troppo generica). Il detenuto potrà a sua volta controdedurre rispetto agli elementi a carico raccolti.

Tempi più lunghi contro la gradualità

Un’altra rilevante novità riguarda le istanze di permesso premio e lavoro all’esterno dei condannati per mafia, terrorismo ed eversione, su cui non si pronuncerà più – come oggi accade – il singolo magistrato di sorveglianza, ma il tribunale, ossia un organo collegiale. Da un lato questo libererà il magistrato dal peso di essere da solo a decidere su questioni così delicate, ma dall’altro scomparirà un grado di giudizio (le decisioni del magistrato, positive o negative, erano reclamabili davanti al tribunale) e si allungheranno a dismisura i tempi per l’eventuale concessione, con probabile perdita di continuità trattamentale, specie nella fruizione di permessi premio, necessaria per sondare le reali possibilità di reinserimento.

I permessi consentono di ricavare informazioni preziosissime circa il rispetto delle regole da parte del condannato, la sua condotta all’esterno, l’attuale insussistenza di legami con il mondo criminale, le speranze concrete di risocializzazione. Impedirne la continuità (ove ve ne siano i presupposti) non solo danneggia l’interessato, ma toglie elementi di supporto ai pareri del pubblico ministero e alle valutazioni del giudice. È dai permessi che si traggono di solito informazioni attualizzate sui rischi effettivi di riallacciamento di legami criminali e i permessi sono strumento indispensabile per valutare se il condannato meriti o meno misure maggiormente liberatorie.

La legge tenta infine di risolvere la grave incoerenza dovuta alla sottoposizione al sistema dell’ostatività (divieto di concessione di benefici in assenza di collaborazione) anche per reati non commessi da organizzazioni criminali, come quelli contro la pubblica amministrazione. Per queste ipotesi si introduce una disciplina a parte, per dettare condizioni diverse di accesso alle misure extramurarie.

Ma i requisiti richiesti sono quasi identici a quelli dettati per i colpevoli di reati associativi e questo mantiene in vita, e forse aggrava, una serie di incongruenze interne alla disciplina dell’art. 4 bis, anche in riferimento ai (talora ben più gravi) reati che compaiono nelle altre liste incastonate nei commi seguenti dello stesso articolo e non toccate dalla riforma, salvo che per un’estensione anche a questi casi delle nuove, severe condizioni per fruire della sola liberazione condizionale.

Osservazioni tecniche rilevanti

Potrebbero ravvisarsi altri profili di frizione con precedenti pronunce della Corte costituzionale. La prima riguarda l’istituto della collaborazione impossibile o inesigibile, che scompare dal nuovo testo normativo. Eppure, su questo punto la Corte costituzionale, con la sentenza n. 20 del 2022, si era appena pronunciata, ritenendo ancora importante distinguere tra chi non ha collaborato perché impossibilitato a farlo e chi ha taciuto per scelta. Il decreto- legge invece prevede le stesse rigide condizioni per entrambe le categorie di persone; quindi, anche per chi rivestiva un ruolo marginale in una organizzazione criminale o non abbia alcuna informazione da aggiungere a quanto già scoperto dagli inquirenti.

La Corte costituzionale potrebbe considerare irragionevole l’equiparazione, anche se il problema è rinviato a un futuro non prossimo dato che la norma transitoria consente di mantenere in vita la distinzione per tutti i reati commessi prima del varo del decreto, ma solo per l’accesso a misure alternative. Per i permessi premio e il lavoro all’esterno, invece, la differenziazione tra le tipologie di mancata collaborazione cade, da subito, e perciò dei dubbi di legittimità potrebbero essere sollevati.

Un altro punto delicato riguarda il rapporto tra le discipline dettate dagli articoli 41 bis e 4 bis dell’ordinamento penitenziario. È importante non confondere le due norme: il 41 bis detta uno speciale regime intramurario mentre il 4 bis, come ho cercato sinora di spiegare, si occupa dell’eventuale accesso a misure esterne. I destinatari sembrano gli stessi, poiché il 41 bis rinvia alla lista di reati prevista dall’art. 4 bis comma 1, quello che detta il divieto di concessione di strumenti risocializzativi esterni in assenza di collaborazione.

Ma l’ambito applicativo delle due disposizioni si sovrappone solo in parte: il 41 bis anzitutto riguarda anche agli imputati e non solo i condannati. Nel secondo caso, non li include tutti, come invece accade per il divieto di accesso a esperimenti di libertà, ma si applica a quella sottocategoria di detenuti che il Ministro della Giustizia ritiene, valutando caso per caso, in grado di mantenere collegamenti con la criminalità organizzata o terroristica anche dall’interno del carcere. Per questo si stabilisce per loro una detenzione notevolmente più restrittiva. Non tutti gli ergastolani ostativi sono detenuti al 41 bis: allo speciale regime sono sottoposte circa 750 persone, compresi gli imputati e i condannati a pene temporanee, contro i più di 1.200 ergastolani ostativi.

Ebbene, se cade il divieto di presentare istanze di misure risocializzative in assenza di collaborazione, teoricamente anche i condannati che scontano la pena in regime speciale potrebbero avanzarle. Con nessuna speranza di accoglimento, data la premessa di quelle regole detentive, ossia l’attuale capacità di mantenere legami con i sodalizi criminali anche dal carcere: dare prova dell’assenza di ogni rischio di riallacciarli all’esterno del carcere sarebbe pressoché impossibile. Eppure, il decreto-legge, per escludere alla radice il problema, ha stabilito apertamente un divieto di concessione dei benefici per chi è sottoposto allo speciale trattamento di cui all’art 41 bis.

L’applicazione di quel regime, stabilita dal Ministro, ossia da un organo non giurisdizionale, produrrebbe così dirette conseguenze non solo sul trattamento intramurario, settore di competenza dell’amministrazione penitenziaria, ma anche sulla possibilità di riacquistare porzioni di libertà, ambito di stretta competenza giudiziale. La Corte costituzionale, con la sentenza n. 349 del 1993, tracciando le coordinate costituzionali di legittimità del regime di cui all’art. 41 bis, ha chiarito che i provvedimenti ministeriali possono incidere esclusivamente sulle regole di trattamento in carcere, senza invadere le competenze proprie del giudice in materia di misure extramurarie.

Un’istanza proveniente da un detenuto raggiunto da un decreto ex art. 41 bis sarebbe invece, stando all’attuale dizione legislativa, per questo solo fatto da dichiarare subito inammissibile senza poter giungere a un effettivo vaglio del tribunale. Seguendo il riparto di competenze ricavabile dalla Costituzione e dalla giurisprudenza costituzionale, dovrebbe spettare solo all’organo giudicante dichiarare l’esistenza di collegamenti con la criminalità organizzata e rigettare nel merito la richiesta del condannato. Decisione scontata, ma rispettosa dei diversi poteri assegnati alla magistratura e al Ministero della Giustizia.

Il senso profondo della Giustizia

Al di là di questi profili molto tecnici, sui quali è necessaria una riflessione più approfondita, la disciplina dell’ergastolo ostativo ci pone di fronte a problemi di grande rilevanza: la sicurezza collettiva, il contrasto a gravissime manifestazioni criminali e il rispetto dei diritti fondamentali che lo Stato è tenuto a garantire a tutti, anche ai condannati alla pena perpetua. Tra questi diritti fondamentali vi è quello a un riesame del giudice a sperare in un possibile – e secondo il nostro sistema normativo mai scontato – ritorno in società.

Il carcere non è un luogo di mera espiazione, ma un tempo in cui costruire concrete possibilità di recupero e reinserimento nella società di ogni condannato. Considerare qualcuno irrecuperabile per legge, senza vagli concreti, significherebbe sancire la sconfitta dello Stato di fronte alle più gravi manifestazioni criminali. Le nuove previsioni appena approvate, che mi auguro si riempiano di contenuti praticabili, altrimenti saranno nuovamente sottoposte al vaglio delle Corti, implicano che si debba tentare di recuperare seriamente anche chi è stato condannato per mafia.

Se ci si riesce, è da considerare un successo del sistema giustizia, non un fallimento. Questo sistema include sì l’accertamento e la condanna ma anche la possibile restituzione alla società di persone rieducate. La giustizia penale svolge i suoi compiti costituzionali se, una volta accertata nel processo la responsabilità e assegnata la giusta pena, tende al fine ultimo di recuperare chi è stato condannato, per reintegrarlo positivamente nella società.

La legge dello Stato deve riconoscere il dolore delle vittime, risarcendole, supportandole, dando loro un legittimo ruolo nel processo, prevedendo forme riparatorie. Ma al contempo deve predisporre percorsi di recupero sociale delle persone detenute, investendovi adeguate risorse, e favorire, non ostacolare, il difficile cammino del graduale reinserimento, nel rispetto della Costituzione.

* professore associato di Diritto processuale penale all’Università di Ferrara, co-fondatrice del Laboratorio interdisciplinare di studi sulla mafia e altre forme di criminalità organizzata (MaCrO) dell’Università di Ferrara, componente della Conferenza nazionale dei Delegati dei Rettori ai poli universitari penitenziari (CNUP)

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