INTERESSI MAFIOSI ANCHE NEI TRANQUILLI TERRITORI MONTANI

I FATTI: UNA CASA DI RIPOSO NELLE MANI DI UOMINI VICINI ALLA ‘NDRANGHETA, TERRENI UTILIZZATI DALLA MAFIA DEI PASCOLI, DELOCALIZZAZIONI E CANTIERI FERMI DA DECENNI, IMPRESE DI COSTRUZIONI CON REQUISITI NON PERFETTI. ACCADE IN ALCUNI COMUNI DELL’APPENNINO BOLOGNESE. LO HANNO DOCUMENTATO UN GRUPPO DI GIOVANI GIORNALISTI NELLA VIDEOINCHIESTA IPOSSIA MONTANA, FINALISTA ALLA XI EDIZIONE DEL PREMIO ROBERTO MORRIONE.
CECILIA FASCIANI, ANDREA GIAGNORIO, SOFIA NARDACCHIONE, SEGUITI DAI TUTOR CATALDO CICCOLELLA E GIULIO VALESINI HANNO RIPERCORSO EPISODI CHE MOSTRANO COME MAFIE E CRIMINALITÀ COMUNE, SFRUTTANDO SILENZIO, INDIFFERENZA, IMPREPARAZIONE E UN TESSUTO SOCIALE ED ECONOMICO SEMPRE PIÙ DISTRATTO E “FRAGILE”, S’INFILTRANO CON GRANDE FACILITÀ.
MASSIMO CALZOLARI HA INTERVISTATO sofia NARDACCHIONE PER APPROFONDIRE COME SIA SEMPRE PIÙ NECESSARIO CONOSCERE E FAR CONOSCERE PER PREVENIRE E CONTRASTARE GLI INTERESSI CRIMINALI.

 

Massimo Calzolari a colloquio con Sofia Nardacchione*

La video inchiesta “Ipossia Montana” parte dall’Appennino bolognese, un territorio fragile. Racconta delle mafie e del possibile impatto dei fondi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza in arrivo sul territorio. Si muove da un territorio specifico, ma il tema posto ne riguarda anche altri: i soldi del Pnrr arriveranno anche su altri appennini, in altre aree interne del Paese, in piccoli comuni che non hanno il personale né le competenze per gestirli. Milioni e miliardi di euro da spendere in poco tempo, entro il 2026, e che rischiano di finire in mani mafiose.

Con riferimento all’analisi corrente sulle mafie al Nord, in questa parte dell’Appennino Bolognese c’è stata infiltrazione mafiosa, o si può già parlare di qualcosa in più: di consolidamento?

I casi che emergono sull’Appennino bolognese sono casi di infiltrazione, perché, almeno per quanto emerso finora, sono slegati a un radicamento costante nel tempo e nello spazio. C’è però un consolidamento: quello delle modalità mafiose e criminali.

Sull’Appennino abbiamo trovato infatti principalmente reati economici, portati avanti da persone vicine ad associazioni mafiose, con un impatto ben preciso sul territorio e che non lasciano da parte la violenza: l’impatto è esplicito ed è sui lavoratori e le lavoratrici finite all’interno del progetto criminale, sulle comunità che si trovano senza spazi che garantirebbe servizi essenziali, sui professionisti a cui vengono privati fondi.

Sono le stesse modalità che troviamo nel radicamento delle mafie in tutto il Nord Italia: gli stessi reati emergono sempre più nei processi di mafia in regione e non solo, così come emerge lo stesso legame tra reati economici e violenza. Nonostante questo, trattandosi su questo territorio ancora di casi isolati, non c’è allarme sociale e, quindi, non c’è neanche una risposta della comunità alla presenza mafiosa.

Per quali ragioni i mafiosi scelgono questi territori così marginali e “periferici”?

La tesi che portiamo nell’inchiesta è che dove le reti sociali, culturali ed economiche si sgretolano o indeboliscono, è più facile che arrivino le mafie. Nel caso specifico, l’Appennino bolognese è un territorio dove gli indici di fragilità sono sempre più alti, la popolazione ha radici sempre meno profonde e i posti di lavoro continuano a diminuire.

Un territorio dove si dice ancora che, proprio perché è un territorio piccolo, c’è un monitoraggio più alto: i tre casi raccontati dimostrano il contrario. Ecco allora che i territori marginali possono diventare i luoghi ideali per le mafie: dove le possibilità di lavoro scarseggiano, è più facile fare leva sullo stato di bisogno e far accettare condizioni che possono arrivare al vero e proprio sfruttamento lavorativo senza che ci sia denuncia, perché di quel lavoro c’è bisogno, a qualsiasi condizione.

In questi luoghi, ci sono poi terreni abbandonati, facilmente utilizzabili per le truffe su carta. E, ancora, nelle zone marginali le strutture amministrative sono ridotte spesso all’osso e diventa quindi più difficile un monitoraggio dall’alto che potrebbe ridurre i rischi che le mafie guadagnino.

Come emergono i fatti? quali sono le prime evidenze?

I casi che emergono in un lavoro d’inchiesta fatta su un’area specifica dell’Appennino bolognese, quella delle Valli del Setta e del Reno, riguardano le tre principali mafie italiane: la ‘ndrangheta a Porretta Terme, la Camorra a Grizzana Morandi e Cosa Nostra a Marzabotto. ‘Ndrangheta, Camorra e Cosa Nostra in tre comuni appenninici a pochi chilometri di distanza, con casi molto diversi ma che raccontano bene le modalità di infiltrazione.

A Porretta Terme c’è una casa di riposo, la Sassocardo, che è finita nelle mani di uomini vicini alla ‘ndrangheta, con minacce e ricatti alle lavoratrici, costrette a dimissioni volontarie e ad accettare nuovi contratti creati ad hoc e, dall’altra, un presunto sistema di riciclaggio da migliaia e migliaia di euro che ha portato la struttura al fallimento.

A Marzabotto, terreni utilizzati dalla mafia dei pascoli e truffe del valore di centinaia di migliaia di euro sui luoghi dell’eccidio nazifascista, nel Parco Storico di Montesole: si tratta di truffe venute alla luce grazie al maxiprocesso Nebrodi e fatte su terreni di proprietà di una privata cittadina e di un’istituzione pubblica, l’Ente Parchi dell’Emilia Orientale. Così, i soldi a fondo perduto dell’Unione Europea che dovevano andare ad allevatori e agricoltori sono finiti nelle mani delle mafie e di professionisti compiacenti.

E ancora, a Grizzana Morandi alla costruzione di un polo scolastico – che dopo più di vent’anni dall’inizio è tuttora allo stato grezzo e quindi chiusa – ha lavorato all’inizio degli anni Duemila un’impresa di Modena che poi è stata chiusa: un’altra impresa, però, appartenente agli stessi soci è stata poi colpita da una interdittiva antimafia per gli stretti rapporti con un imprenditore legato al clan camorristico degli Zagaria e condannato a dieci anni proprio per concorso esterno in associazione mafiosa. I soci della società poco prima avevano denunciato di essere vittime di estorsione da parte del clan dei casalesi, lo stesso a cui sarebbero invece legati.

Storie che raccontano un territorio in cui mafie e criminalità si infiltrano e dove quindi c’è un rischio concreto: che i 100 milioni di euro che arriveranno sull’Appennino bolognese grazie al Pnrr finiscano in mani mafiose.

L’infiltrazione in queste tre realtà è avvenuta, questo è un fatto. Perché? Consapevolezza. Inconsapevolezza. Sottovalutazione?

Inconsapevolezza nella lettura dei segnali che riguardano la presenza di mafie e criminalità e, poi, sottovalutazione. Dei tre casi, due dei quali non erano mai emersi, non se ne parla sul territorio: si continua a parlare di “isole felici”, di comunità attente e coese, senza prendere consapevolezza che i casi ci sono già stati e il rischio è concreto.

C’è poi un’altra chiave di lettura: in Emilia-Romagna il processo Aemilia ha creato un punto di non ritorno nella consapevolezza del radicamento mafioso, nessuna persona dice di non sapere che le mafie ci sono in regione, ma finché non c’è un’operazione grande, un processo di cui si parla, numeri di imputati e reati che creano notizia, la consapevolezza rimane generale e non viene portata su territori non colpiti dai grandi processi di mafia. Così, i territori più piccoli e più lontani dall’epicentro del maxiprocesso di ‘ndrangheta sembrano ancora considerarsi immuni dal fenomeno.

Quali reazioni si sono generate nelle realtà locali, amministrazione, comunità, associazioni economiche, sindacati?

La prima reazione degli amministratori locali è stata di attacco, soprattutto sull’ultimo tema dell’inchiesta, cioè quella che riguarda il rischio che i soldi del Pnrr vengano spesi male o finiscano in mani mafiose. Oltre ai casi di mafie e criminalità, infatti, quello che viene portato alla luce in “Ipossia montana” è il fatto che il Piano nazionale non preveda strumenti di monitoraggio e che piccoli comuni con piccole strutture amministrative e tecniche dovranno gestire milioni di euro.

Un tema che viene portato alla luce prima che quei soldi vengano spesi proprio per cercare di fare in modo che i rischi si abbassino grazie a una maggiore attenzione e consapevolezza e all’attuazione di nuovi strumenti. Un rischio che sembra però essere stato recepito.

Sul caso delle truffe sui terreni del Parco Storico di Montesole, invece, la situazione è stata ancora diversa: l’Ente Parchi a cui appartengono una serie di terreni utilizzati per la truffa non si sarebbe mossa in alcun modo per portare alla luce quanto è successo né per approfondirlo. La percezione è che portare alla luce casi legati alle mafie sui propri territori vada a rovinare l’immagine che si ha di essi più che proteggerli da nuovi possibili tentativi di infiltrazione. Una reazione preoccupante, che per fortuna non è l’unica: c’è chi ha organizzato proiezioni e dibattiti e si è attivato.

Ci sono indagini e provvedimenti in corso. Qual è lo stato delle cose?

Nel caso di Porretta Terme le indagini sono sfociate in un processo iniziato a Bologna a fine aprile scorso: su diciassette imputati, a dieci viene contestata l’aggravante del metodo mafioso. È il primo processo dopo anni in cui vengono contestati reati del genere in una città dove i legami e le infiltrazioni scoperchiate dai grandi processi di mafia, a partire da Aemilia, non erano ancora emersi.

Non solo, uno degli imputati, un imprenditore con diverse attività nel capoluogo emiliano accusato di tentata estorsione pluriaggravata dal metodo mafioso, è finito al centro di una nuova videoinchiesta, realizzata da Libera Bologna: nelle carte delle indagini, infatti, emerge il legame – grazie a una serie di intercettazioni – con Luigi Muto, persona di primo piano della ‘ndrangheta emiliana condannata a 12 anni per associazione mafiosa.

Le telefonate intercorse tra i due riguardavano un regolamento di conti in cui erano stati coinvolti dai due principali imputati del processo. A dimostrazione che le vicende si intrecciano, i nomi tornano e raccontano mondi e modalità criminali che troppo spesso rimangono sottotraccia e che è necessario raccontare.

*Sofia Nardacchione giornalista per Q Code Magazine dal 2020 coordina il “Sentiti Libera” insieme a Libera Bologna pensato per raccontare mafie e criminalità a un pubblico giovane. Per Libera Bologna e Libera Emilia-Romagna ha curato, tra il 2016 e il 2022, diversi dossier sulle mafie in città e in regione e pubblicato, nel 2021, tre video inchieste.

*Massimo Calzolari, architetto, già assessore e sindaco del comune di Savignano sul Panaro, membro del comitato scientifico di Avviso Pubblico.

Andrea Giagnorio, Sofia Nardacchione e Cecilia Fasciani: gli autori della video-inchiesta “Ipossia montana”

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