LE MAFIE IERI, OGGI E DOMANI

DALLA RICOSTRUZIONE DEL CONCETTO STORICO DI BORGHESIA MAFIOSA ALL’ANALISI DELLE ATTUALI CONNIVENZE CHE CONSENTONO ALLE MAFIE DI DIFFONDERSI E PROLIFERARE FINO AL RICONOSCIMENTO DELLA NECESSITÀ DI UN RICOMPATTARSI DEL FRONTE DELL’ATTENZIONE E DEL CONTRASTO CIVILE AL FENOMENO: UMBERTO SANTINO, STORICO, SAGGISTA, DIRETTORE DEL CENTRO SICILIANO DI DOCUMENTAZIONE “GIUSEPPE IMPASTATO”, HA RILASCIATO PER IL BLOG UN’INTERVISTA CHE SPAZIA, FORNENDO DIVERSI, PREZIOSI SPUNTI DI APPROFONDIMENTO.
A colloquio con Umberto Santino *

In 50 anni di studi, riprendendo analisi e documenti elaborati in periodi storici antecedenti il ‘900,  ha trattato il tema della borghesia mafiosa che è al centro anche del suo ultimo libro ristampato dall’editore Di Girolamo “La borghesia mafiosa. Le relazioni di Cosa Nostra.” Come spiega il fatto che il concetto sia stato presentato come una scoperta, emersa dall’arresto di Matteo Messina Denaro.

In un convegno organizzato dal Centro Impastato e dal Dipartimento “Culture e società” dell’Università di Palermo nel 2017, i cui atti sono stati pubblicati nel libro Mafie: a che punto siamo? Le ricerche e le politiche antimafia, il magistrato Michele Prestipino sottolineava che il mio concetto di borghesia mafiosa era stato utilizzato dai suoi colleghi, e anche dalla Cassazione, con molti anni di ritardo (la prima edizione del libro La borghesia mafiosa è del 1994, ma gli scritti contenuti in quel volume rimontano agli anni ’70) e si chiedeva se non si stesse replicando il ritardo nell’analisi delle “nuove mafie”.

Penso che la “scoperta” della borghesia mafiosa, dopo l’arresto di Messina Denaro, ignorando tutto quello che si era scritto prima, sia dovuta alla scarsa attenzione per studi e ricerche che sono fuori dal seminato accademico e dal circuito massmediale.

Di cosa si parla concretamente, quindi, al netto dei titoli attuali della stampa, storicamente quando si fa riferimento alla borghesia mafiosa.

Il problema della borghesia mafiosa si pone a due livelli: soggetti delle classi medio-alte che sono affiliati all’organizzazione mafiosa o fanno parte del sistema relazionale. La mia analisi non parte da zero. Ha come antenato l’inchiesta privata di Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino del 1876. Franchetti parlava dei “facinorosi della classe media” che esercitano “l’industria della violenza”.

In Sicilia “la classe dei facinorosi si trova in una condizione speciale, che non ha nulla a che fare con quella di malfattori in altri paesi […] e si può quasi dire di essa che è addirittura un’istituzione sociale. Giacché, oltre ad essere uno strumento al servizio di forze sociali esistenti ab antiquo, essa è diventata [  ] una classe con industria ed interessi suoi propri, una forza sociale di per sé stante”.

Cioè: i facinorosi, professionisti della violenza, sono passati dalla subalternità (guardiani e amministratori delle proprietà dei grandi agrari aristocratici) all’autonomia e supremazia. Si potrebbe dire: una Rivoluzione francese alla siciliana, con un Terzo Stato formato in buona parte da delinquenti. E qui si pone il problema della mafia. Franchetti, come tutti in quel periodo, ritiene che ci siano associazioni di malfattori (il reato era stato introdotto dal codice napoleonico nel 1810 e sarà letteralmente riprodotto dal codice sardo, poi diventato codice del Regno) ma non c’è la mafia come organizzazione unitaria dei vari gruppi.

Bisognerà attendere il questore Sangiorgi che, alla fine dell’Ottocento, darà un quadro simile a quello attuale: una vasta associazione di malfattori, organizzati in sezioni, divisi in gruppi, con il loro capo e al vertice un capo supremo. Però la parola “mafia” già circolava (ufficialmente dal 1865, con due effe) e, a dire di Franchetti, “ha trovato pronta una classe di violenti e di facinorosi che non aspettava altro che un sostantivo che l’indicasse”. A capo delle associazioni di malfattori, riconducibili alla mafia, erano soggetti borghesi arricchiti: “Tutti i cosiddetti capi mafia sono persone di condizione agiata”, che possono commettere omicidi in prima persona, ma normalmente si servono dei “facinorosi della classe infima”.

Il capomafia ha “la parte del capitalista, dell’impresario e del direttore”. Siamo ai primordi della mafia imprenditoriale. Già prima di Franchetti ci sono documenti che mostrano l’ascesa sociale di soggetti che possono essere definiti mafiosi. Ne parlo nel libro La mafia dimenticata che ricostruisce i primi 40 anni dello Stato unitario. Per esempio, nelle relazioni di un parlamentare della Destra storica, Diomede Pantaleoni, inviate al ministro dell’Interno Bettino Ricasoli – siamo nel 1861 – si parla di persone di malaffare che vengono nominati a posti governativi.

Non si parla di borghesia mafiosa ma è in atto un processo d’imborghesimento di personaggi del mondo criminale, più o meno organizzato. E l’ex procuratore e poi deputato Diego Tajani, in un discorso alla Camera nel giugno del 1875, sosteneva: “la mafia che esiste in Sicilia non è pericolosa, non è invincibile di per sé, ma perché è strumento di governo locale”. Il problema è proprio questo: la mafia, la borghesia mafiosa, come componenti del potere, con un ruolo e una funzione che si spiegano all’interno di un discorso più generale sulla morfologia del potere, a livello locale e nazionale.

Non si attacca un’intera classe sociale, ma si evidenzia come alcuni componenti di questa abbiano intessuto relazioni proficue di scambio con rappresentanti delle organizzazioni criminali. È un processo lungo e articolato. Come poteva essere intercettato, perché si è permesso che si allargassero così tanto le maglie?

La mia analisi è stata considerata come una criminalizzazione generalizzata ma, sia per quanto riguarda la mafia che il sistema relazionale, individua soggetti che, in sede giudiziaria o comunque su una base documentale affidabile, possono definirsi “borghesia mafiosa”. L’incontro avviene su terreni come gli appalti, l’accesso a fondi pubblici, il riciclaggio del capitale illegale, l’individuazione di nuove occasioni di accumulazione e di investimento. Il ritardo c’è stato per la mafia come per il sistema relazionale.

Per il diritto la mafia non esisteva; solo dopo l’assassinio del generale-prefetto Dalla Chiesa, nel settembre del 1982, è stata approvata la legge che definisce l’associazione di tipo mafioso. Come si vede, si agisce con una logica emergenziale, in reazione all’escalation della violenza mafiosa, con la guerra di mafia dei primi anni ’80. E solo negli ultimi decenni per i soggetti legati alla mafia si è applicato il concorso esterno in associazione mafiosa.

Come si spiega questo ritardo? La risposta va cercata sul terreno politico. Il rapporto della mafia con le istituzioni è stato fondato sull’interazione e sulla convivenza e si è interrotto solo quando la violenza ha colpito rappresentanti delle istituzioni o ha toccato vertici che non potevano non suscitare reazioni. La mafia per un lungo periodo storico è stato il baluardo armato contro il social-comunismo e contro ogni forma di rinnovamento che mettesse in pericolo l’assetto di potere. Questo contesto è stato archiviato con la fine della “minaccia” comunista.

Cambiano gli interessi, si sostituiscono gli uomini, si affinano le modalità di azione: si può dire che mafie e borghesia mafiosa subiscano le stesse trasformazioni? Se sì, a che punto ci troviamo per entrambe.

È la domanda che ci poniamo nel libro in cui sociologi e magistrati si interrogano sullo stato delle ricerche e delle politiche antimafia. Gli studi più recenti hanno posto al centro una visione della mafia come “industria della protezione privata”; per il sistema di relazioni si è parlato di “capitale sociale”, di “area grigia”, concetti che trovo generici per cui continuo a preferire il concetto di “blocco sociale” con una struttura transclassista: professionisti, imprenditori, amministratori, rappresentanti della politica e delle istituzioni, cioè la borghesia mafiosa, ai piani alti; a quelli bassi, soggetti degli strati popolari: esecutori, spacciatori di droga, delinquenti comuni, manovalanza e bracciantato del crimine.

Dopo le stragi del ’92 e del ‘93 e la reazione istituzionale con il carcere duro e l’ergastolo ostativo, la mafia non ha sparato più e si è detto che ha rinunciato alla violenza e preferisce il ricorso alla corruzione. La mafia attuale sarebbe mercatista, orientata soltanto o principalmente alla sua collocazione nel mercato nazionale e internazionale, illegale e legale, come produttrice di beni e prestatrice di servizi economicamente rilevanti. La corruzione non è una novità e la violenza può avere effetti intimidatori anche se non è agita, ma è eventuale e potenziale. Le trasformazioni ci sono ma mi riesce difficile pensare che ci sia stata e ci sia una mutazione radicale, antropologica: da associazione criminale a lobby o a loggia, dati i rapporti con le logge massoniche.

Espressioni come la “Cosa nuova” o “Supercosa”, con riferimento a una mafia elitaria, distinta da quella tradizionale, mi lasciano perplesso. La distinzione c’è o può esserci, ma non sono mondi separati, senza comunicazione tra loro. Che il crimine sia, da tempo, transnazionale non ci sono dubbi, ma ipotizzare la formazione di un sistema criminale planetario, formato dalle organizzazioni più importanti, rischia di evocare un immaginario che sta tra la Piovra e la Spectre. In un mio saggio del 1986 parlavo di “mafia finanziaria”, ma avvertivo che le innovazioni convivevano con aspetti tradizionali, come l’estorsione, documentata a Palermo fin dal XVI secolo, che continua ad essere praticata come espressione e riconoscimento della signoria territoriale, e non può essere riservata a una mafia marginale.

Dal Centro Impastato, fondato insieme ad Anna Puglisi, che dirige da diversi anni e in uno dei suoi testi fondamentali sull’argomento “Storia del movimento antimafia”, lei ha coltivato una memoria viva di cosa sia stato il contrasto civile alle mafie nel nostro paese. Cosa pensa della situazione attuale da questo punto di vista.

Nel mio libro ho dato molto spazio alle lotte contadine che hanno già i caratteri della mobilitazione antimafia, a cominciare dai Fasci siciliani dei lavoratori di fine Ottocento, un fenomeno che ha le contraddizioni di una fase aurorale, che alcuni studiosi hanno sottolineato in polemica con la mia valutazione. Le lotte contadine proseguono prima e dopo la Prima guerra mondiale, e hanno il massimo sviluppo negli anni del secondo dopoguerra.

Queste lotte si inserivano in una strategia di mutamento, che aveva come soggetti portanti organizzazioni partitiche e sindacali. Per reprimerle e arrestarle si è ricorso al connubio tra violenza istituzionale e violenza banditesca e mafiosa, all’interno di un progetto con implicazioni geopolitiche, in un mondo diviso in due: una parte sotto l’influenza sovietica e l’altra sotto quella americana. La strage di Portella della Ginestra, del primo maggio 1947, viene dieci giorni dopo la vittoria delle sinistre alle elezioni regionali, con il Partito socialista e il Partito comunista nella coalizione antifascista al governo dal 1944.

Nello stesso mese di maggio del ’47 crolla la coalizione e le sinistre vengono escluse dal governo. Si temeva che vincessero alle elezioni politiche del ’48 e, con l’Italia schierata con gli Stati Uniti, i partiti di sinistra, per i loro legami con l’Unione Sovietica, non potevano avere accesso alle stanze del potere. Nasce la “democrazia bloccata” e durerà per quasi mezzo secolo.

E quando ci saranno le condizioni per rinnovare il quadro politico mafia e terrorismi useranno la violenza per impedirlo. Dopo le profonde mutazioni del contesto geopolitico, l’azione antimafia ha visto come protagonista la società civile, con le manifestazioni dopo i grandi delitti e le stragi e con le attività continuative: le iniziative nelle scuole, la formazione di associazioni antiracket, l’uso sociale dei beni confiscati.

Ho studiato questa nuova stagione alla luce delle riflessioni sull’azione sociale nella società contemporanea. Una volta archiviate le grandi “narrazioni”, ci si muove con forme spesso precarie e obiettivi limitati e monotematici. Quello che si può dire per le varie forme di azione sociale vale anche per l’antimafia attuale, che svolge un compito importante nel recupero della memoria, organizza e gestisce le attività continuative, ma condivide i limiti segnati dal contesto.

Abbiamo iniziato l’intervista parlando di concetti storici legati alle mafie balzati alle cronache come novità da titolo in grassetto, come pensa sia cambiata anche la lettura del fenomeno mafioso e la sua trasposizione mediatica?

La mafia figura con un ruolo di primo piano sul palcoscenico multimediale: alla stampa, al cinema, alla televisione si sono aggiunti i social, i format seriali, i videogiochi, il più delle volte con prodotti che hanno come fine primario la vendibilità in base a criteri di marketing. Ma non ci sono solo Netflix di una multinazionale americana e la News Corporation di Murdoch, ci sono pure i cantanti neomelodici che inneggiano al boss locale “perseguitato dalla giustizia”.

Abbiamo alle spalle i grandi successi del Padrino e della Piovra: il primo ha un’esplicita funzione apologetica della mafia intesa come Tradition inalterata in un mondo senza valori e punti di riferimento; nella seconda è un mostro onnipresente e onnipotente contro cui si leva il protagonismo di un eroe destinato alla sconfitta. Sceneggiati come Il capo dei capi hanno avuto effetti performativi, riscontrati anche in scuole con una tradizione di attività antimafia.

Alcuni docenti, con cui ho avuto un rapporto frequente, mi riferivano che i ragazzi nei loro giochi volevano fare tutti il capo, Totò Riina, e nessuno il poliziotto, lo sbirro che è perdente e isolato. La mafia, la violenza sono rappresentate come uno spettacolo, la cui validità è ratificata dall’indice di gradimento e spesso la finzione modifica la realtà. I ragazzi napoletani scimmiottano i protagonisti del teleschermo: ne imitano i gesti, vestono allo stesso modo. I gadget con il faccione di Marlon Brando – don Corleone tappezzano le strade di Palermo, accanto alle immagini di santa Rosalia. Personificazioni di un culto identitario.

Nelle città spagnole si va a pranzo o a cena con i grandi Padrini. Nella catena di ristoranti “La mafia se sienta a la mesa” i volti dei mafiosi più noti non sono tappezzeria ma presenza familiare, frequentazione quotidiana. Ma c’è Il cinema civile, con pionieri registi come Rosi e Ferrara, spesso dedicati a personaggi dell’antimafia, più o meno noti. Una gamma che va dall’eroico alla banalizzazione.

Per fare qualche esempio più vicino alla storia personale, I cento passi mostrano un Peppino che percorre i passi che separano casa sua da quella di Badalamenti, mentre la mafia l’aveva in casa (la storia di vita della madre che abbiamo raccolto è intitolata La mafia in casa mia); Felicia, la madre di Peppino, che non usciva quasi mai di casa, nello sceneggiato televisivo è una sorta di eroina, che percorre le strade di Cinisi come un campo di battaglia. Se debbo esprimere le mie preferenze, ritengo che sia più efficace il cinema satirico: ridere della mafia, come faceva Peppino Impastato con la sua Radio Aut, è una forma di smitizzazione che sgretola il prestigio del capomafia e del sedicente ”uomo d’onore”.

 Il suo libro è uscito casualmente a ridosso dell’arresto di Matteo Messina Denaro, lei ci ha tenuto a precisare che non si tratti di un instant book, ci spiega perché è importante, non solo per una questione metodologica legata agli studi, ma anche e soprattutto per coltivare un impegno di prevenzione e contrasto duraturo, mantenere un’attenzione costante e approfondita sul tema

L’attenzione per il fenomeno mafioso è legata a eventi eclatanti: i grandi delitti, le stragi, l’arresto di un boss. Sempre con l’ottica dell’evento, dell’emergenza. Per prevenire e contrastare bisogna innanzitutto conoscere. Le Università hanno scoperto la mafia in ritardo ma hanno cercato di colmarlo con progetti di ricerca che mirano a creare una nuova leva di studiosi e di operatori.

Con le relazioni delle Commissioni antimafia, della Dia e di altri soggetti istituzionali, le attività informative e formative di Libera, di Avviso pubblico e di altre organizzazioni della società civile, abbiamo un patrimonio di conoscenza rilevante, anche se spesso istituzioni e associazioni sono mondi che non comunicano. Ma il problema di fondo è agire sulle cause. Se la mafia, le mafie, nonostante inchieste, processi e condanne, si riproducono è perché c’è una società mafiogena che ho cercato di analizzare.

Sinteticamente il quadro può così delinearsi: un’economia legale debole e quella illegale che offre privilegi e convenienze; un tessuto sociale fragile, una scarsa partecipazione alla vita comunitaria e una politica ridotta a governance e occupazione del potere; una povertà culturale diffusa, una competitività con tutti i mezzi, anche i più scorretti e illegali; una globalizzazione all’insegna della finanziarizzazione, che concentra le ricchezze e rende difficile la distinzione tra capitali illegali e legali, e del neoliberismo, che aggrava squilibri territoriali e divari sociali.

Siamo otto miliardi e qualche migliaio di persone possiede più della metà della popolazione mondiale. Così le mafie e l’illegalità proliferano nelle periferie, sempre più estese, e nei centri, sempre più ristretti. Sono insieme risorsa di sopravvivenza e moltiplicatore di rendite e profitti. Le associazioni antimafia devono dare il loro contributo a un progetto di mutamento, a partire dai luoghi in cui operano. Il Centro Impastato e il No mafia Memorial cercano di fare la loro parte.

*Umberto Santino è fondatore, assieme ad Anna Puglisi, e direttore del Centro siciliano di documentazione “Giuseppe Impastato” di Palermo, il primo centro studi sulla mafia e altre forme di criminalità organizzata sorto in Italia (1977), autore di numerosi saggi sul tema.

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