IL FILO NERO DELLE STRAGI POLITICO-MAFIOSE DEL 92\94 E LA STRATEGIA DELLA TENSIONE

IL PROCURATORE DI REGGIO EMILIA, CALOGERO GAETANO PACI DEFINISCE “ERESIA” QUANTO I MAGISTRATI E GLI INVESTIGATORI DEL POOL ANTIMAFIA DELL’UFFICIO ISTRUZIONE DEGLI ANNI ’80 AVEVANO COLTIVATO, SFIDANDO LE CONNIVENZE E LE COMPLICITÀ CHE AVEVANO RESO COSA NOSTRA UNA COMPONENTE FONDAMENTALE DI UN SISTEMA CRIMINALE. LA SUA BREVE E PUNTUALE RICOSTRUZIONE DEL PERIODO STRAGISTA FA EMERGERE IL SENSO E IL VALORE DI FORTE DIFESA DELLA DEMOCRAZIA CON CUI, PROPRIO CHI COLTIVÒ QUELLA ERESIA, LE DEDICÒ ENERGIE FINO ALL’ESTREMO SACRIFICIO. PAROLE SU CUI MEDITARE PER PORTARE AVANTI LA MEMORIA E NON SMETTERE DI APPROFONDIRE.
Il contributo di Calogero Gaetano Paci*

Sono trascorsi 31 anni dalle stragi di Palermo del 1992 ed altrettanti ne stanno trascorrendo da quelle commesse e tentate tra Firenze, Milano e Roma ed infine da quelle realizzate nel 94 in Calabria ai danni dei Carabinieri. Un tempo durante il quale indagini e processi, alcuni ancora in corso, hanno consentito di fissare una serie di punti fermi, non solo sulle responsabilità penali dei singoli ma anche sulla rilevanza che esse hanno avuto nella storia d’Italia.

Gli approdi giudiziari sinora raggiunti comprovano che gli esecutori materiali di questi delitti – soprattutto Cosa Nostra siciliana – si mossero, secondo le intenzioni iniziali, per salvaguardare l’integrità dell’organizzazione criminale e la credibilità della leadership corleonese, messe a dura prova, dopo un trentennio di incontrastato dominio sanguinario, dalla conferma della sentenza del maxi-processo da parte della Corte della Cassazione il 30 gennaio 1992.

Le conseguenze del Maxi Processo

Con quella sentenza era stato definitivamente affermato il principio, dirompente ed inaccettabile per chi aveva goduto per anni di assoluzioni per insufficienza di prove, della responsabilità dei componenti dell’organismo del vertice decisionale della mafia, la commissione provinciale di Cosa Nostra, per tutti i delitti c.d. eccellenti che erano stati perpetrati ai danni di numerosi servitori dello Stato, esponenti politici, professionisti ed imprenditori che si erano schierati contro la pervicacia del sistema di potere di mafioso.

Rompendo una tradizione centenaria di impunità, la sentenza del maxi-processo aveva anche rivelato il fallimento della strategia di condizionamento attuata da Salvatore Riina e dagli altri capi dell’organizzazione, che per reazione avevano programmato ed attuato una feroce strategia di sterminio nei confronti di coloro che avevano promesso, ma non mantenuto il loro interessamento, come l’on. Salvo Lima ucciso il 12 marzo 1992, e soprattutto verso Giovanni Falcone e Paolo Borsellino che, come in precedenza Rocco Chinnici, avevano animato l’azione del pool antimafia del Tribunale di Palermo nel decennio precedente.

Tra vendetta mafiosa e delegittimazione ufficiale

L’uccisione dei due Magistrati, tuttavia, non era stata soltanto conseguenza della furia vendicativa mafiosa ma aveva rappresentato il culmine di una inarrestabile e raffinata opera di isolamento e di delegittimazione, già iniziata negli anni ’80 nel palazzo di giustizia di Palermo e proseguita negli altri palazzi del potere siciliani e romani. In questi luoghi veniva difesa con pervicacia la conservazione degli equilibri politici, economici e mafiosi esistenti ed era perciò molto temuta la loro destabilizzazione intrapresa da quel ristretto gruppo di magistrati ed investigatori che, per la prima volta nella storia, concepiva il contrasto a Cosa Nostra in termini globali verso tutte le sue manifestazioni, militari, economiche e politiche.

Come non ricordare, al riguardo, le annotazioni contenute nei diari di Rocco Chinnici, primo coordinatore del pool antimafia, trucidato nella strage del 29 luglio 1983, a proposito di una convocazione dell’allora Presidente della Corte di Appello di Palermo, Giovanni Pizzillo, del 18 maggio 1982:

ore 12 – [Il Presidente] Mi investe in malo modo dicendomi che allufficio istruzione stiamo rovinando leconomia palermitana disponendo indagini e accertamenti a mezzo della guardia di finanza. Mi dice chiaramente che devo caricare di processi semplici Falcone in maniera che «cerchi di scoprire nulla perché i giudici istruttori non hanno mai scoperto nulla».

[…] Cerca di dominare la sua ira ma non ci riesce. Mi dice che verrà a ispezionare lufficio (e io lo invito a farlo); è indignato perché [non è stata archiviata] la sporca faccenda dei contributi (miliardi per la elettrificazione delle loro aziende agricole); luomo che a Palermo non ha mai fatto nulla per colpire la mafia […] non sa più nascondere le sue reazioni e il suo vero volto. Mi dice che la dobbiamo finire, che non dobbiamo più disporre accertamenti nelle banche.”

Ed è lo stesso Falcone a ricordare, in un intervento del 17 dicembre 1984, che i primi esiti delle indagini e dei processi celebrati in quegli anni avevano “sconvolto molti equilibri in una società che per lungo tempo ha ritenuto, a tutti i livelli, che con la mafia si dovesse convivere”.

La mancanza di credibilità dello Stato “a tutti i livelli” e l’urgenza del suo recupero sarà il leitmotiv degli interventi pubblici dei due magistrati, in aperta contrapposizione con la retorica minimizzatrice dominante a quel tempo, mirabilmente espresso da un intervento di Paolo Borsellino in occasione di un incontro con gli studenti di Bassano del Grappa il 26 gennaio 1989:

“ […] il cittadino del Meridione si è sentito lontano, si è sentito estraneo allo Stato. […] lo Stato non si presenta con la faccia pulita […]. Che cosa si è fatto per dare allo Stato, in queste regioni e comunque dappertutto in Italia, un’immagine credibile? […] la vera soluzione sta nell’invocare, nel lavorare affinché lo Stato diventi più credibile, perché noi ci dobbiamo identificare di più in queste istituzioni.

Le campagne di odio

Recupero di credibilità tanto più necessario, secondo Borsellino, in un momento in cui la delega della lotta alla criminalità mafiosa data dallo Stato alla magistratura non era stata raccolta da tutti i suoi componenti, come testimoniarono gli esempi di Gaetano Costa e di Rocco Chinnici, tra i pochi «che cominciarono a interessarsi di questi problemi… [e] non è che raccolsero grossa solidarietà all’interno del Palazzo di giustizia».

Queste prese di posizione costarono a Falcone e a Borsellino le infamie e le calunnie portate sistematicamente avanti attraverso odiose campagne di stampa nazionali e locali, orchestrate da coloro che alla loro morte non persero un minuto per professarsi amici; campagne basate sulle accuse di protagonismo, di professionismo dell’antimafia e persino su inesistenti addebiti disciplinari cui Borsellino venne sottoposto quando, con coraggio ed altissimo senso delle istituzioni, si espose pubblicamente per denunciare la fine del metodo di indagine del pool antimafia, voluta dal nuovo coordinatore Antonino Meli.

Il loro isolamento continuerà sino alla soglia della loro morte: Falcone venne umiliato dal nuovo Procuratore di Palermo Pietro Giammanco – legato a doppio filo al blocco di potere direttamente collegato a Cosa Nostra – che, pur affidandogli il coordinamento delle indagini antimafia, lo tenne all’oscuro del lavoro degli altri magistrati e gli impedì di sviluppare le indagini verso i centri occulti di potere militare (Gladio) e politico massonico (neo fascismo e P2) che palesemente emersero dallo scandaglio sugli omicidi del Presidente della Regione Siciliana Piersanti Mattarella e dal Segretario Regionale del PCI Pio La Torre; sempre Giammanco, inoltre, vietò a Borsellino di occuparsi della mafia della provincia di Palermo ed addirittura omise di informarlo dell’imminente esecuzione del progetto di morte ai suoi danni.

Dopo la strage di Capaci, nonostante ebbe a chiedere più volte, ed anche pubblicamente, di essere sentito dai magistrati di Caltanissetta che all’epoca indagavano, Borsellino non verrà mai ascoltato per rendere testimonianza su fatti e circostanze vissute in prima persona in tanti anni di lavoro comune con Falcone e che non avrà mancato di annotare sulla sua agenda rossa che verrà immediatamente trafugata sul luogo della strage il 19 luglio.

Depistaggi e partecipazione esterna

Le indagini ed i processi che si sono susseguiti sulle stragi del 92, del 93 e del 94 hanno consentito di ricomporre il quadro dell’esecuzione materiale, superando anche il devastante depistaggio realizzato con riferimento a quella di via D’Amelio da parte della struttura investigativa guidata da Arnaldo La Barbera, la cui occulta appartenenza ad apparati autonomi dei Servizi è stata scoperta soltanto recentemente.

Depistaggio che aveva avuto come conseguenza la condanna all’ergastolo di persone innocenti e che era stato sapientemente ordito per spostare l’orizzonte investigativo verso un mandamento di Cosa Nostra (Santa Maria del Gesù) diverso da quello che aveva organizzato la strage (Brancaccio), con il fine strategico di impedire lo svelamento dei legami dei fratelli Graviano, che quel mandamento reggevano, con Marcello Dell’Utri.

Depistaggi proseguiti, in epoca ancora recente, con la falsa ricostruzione dell’ex collaboratore di giustizia catanese Maurizio Avola che ha proposto una versione dell’esecuzione materiale della strage di via D’Amelio nettamente contrastante con le risultanze processuali e tutta volta ad escludere la compartecipazione di soggetti diversi da Cosa Nostra.

E tuttavia molti punti di questa ricostruzione rimangono ancora da chiarire, a cominciare dal ruolo dei servizi segreti che, come era già emerso nel corso delle indagini sulla strage di Capaci, era stato così rilevante da far dire al collaboratore Mario Santo Di Matteo, nel corso di una conversazione con la moglie, che di questo argomento non si doveva parlare senza mettere a rischio la vita.

Ruolo peraltro messo in evidenza da numerose sentenze, tra le ultime quella del procedimento Borsellino quater della Corte di Assise di Caltanissetta, ove risulta accertata la presenza di soggetti estranei a Cosa Nostra al momento della preparazione della 126 su cui fu caricato l’esplosivo, cosi come sulla scena del crimine, nell’immediatezza della deflagrazione, ove soggetti in giacca e cravatta, riconosciuti come appartenenti ai servizi, vennero visti rovistare tra le auto esplose e le macerie. Da quel momento l’agenda rossa, che Paolo Borsellino utilizzava per annotare fatti e situazioni del suo lavoro, non venne più ritrovata.

Persino tra i ranghi più elevati dell’organizzazione mafiosa non era mancata l’esternazione della consapevolezza della eterodirezione delle stragi, come risulta da una nota conversazione, intercettata tra le mura domestiche nel 2001, tra il boss del mandamento di Brancaccio Giuseppe Guttadauro ed il figlio Francesco, nel corso della quale il primo spiegava al secondo che gli uomini d’onore di Cosa Nostra non erano in grado di concepire l’idea di un attacco al patrimonio artistico dello Stato, ed al museo degli Uffizi di Firenze in particolare.

I collegamenti con le altre stragi e l’eversione nera

Si deve infine ai processi celebrati nel 2021 e nel 2022 dalla Corte di Assise di Bologna per la strage del 2 agosto 1980 l’ulteriore approfondimento, sia pure ancora non acclarato in via definitiva, dei rapporti con le stragi del 92\94.

Le condanne in primo grado di Gilberto Cavallini e di Paolo Bellini si fondano anche sull’accertamento dei rapporti che costoro avevano instaurato con Cosa Nostra e che erano già emersi, con riferimento al primo, nel corso delle indagini per l’omicidio del Presidente della Regione Siciliana Piersanti Mattarella; in questo contesto, l’ordinanza della sentenza di rinvio a giudizio del 1991 del Giudice Istruttore di Palermo individuò una serie di elementi obiettivi di collegamento tra il neo-fascista Cavallini e diversi appartenenti a Cosa Nostra, anche se questi non vennero poi ritenuti sufficienti dalla Corte di Assise per condannarlo, unitamente a Giusva Fioravanti, per l’esecuzione materiale dell’omicidio.

Il nome di Paolo Bellini era stato indicato, insieme a quello di Domenico Papalia, esponente di spicco della Ndrangheta, nella lettera rinvenuta nella cella del carcere di Rebibbia, ove, nella notte tra il 28 ed il 29 luglio 1993, fu ritrovato cadavere Antonino Gioè. Per anni la versione ufficiale parlerà di suicidio, in realtà, come si accerterà recentemente nel contesto dell’istruttoria dibattimentale del processo “ndrangheta stragista, in cui Giuseppe Graviano è stato condannato dalla Corte di Assise di Appello di Reggio Calabria per la strage dei Carabinieri di villa San Giovanni del 1994, ben più consistente è la prova che Gioè sia stato “suicidato” per impedirgli di rivelare le sue conoscenze.

Ed è stato accertato che Gioè, uno degli esecutori materiali della strage di Capaci ed infiltrato per conto dei Servizi, aveva avuto rapporti proprio con Bellini, esponente neofascista emiliano, killer confesso per conto della Ndrangheta, subito dopo la strage di Capaci e con il fine di proporre uno scambio tra la restituzione allo Stato di opere d’arte rubate e la concessione di benefici ad alcuni esponenti mafiosi detenuti.

L’inevitabile ampliamento del quadro indiziario e probatorio oltre lo stretto ambito dei soggetti inseriti in Cosa Nostra ed il coinvolgimento, a vario titolo, di soggetti e strutture inseriti in ambiti istituzionali, ha indotto i Giudici della Corte di Assise che hanno condannato Paolo Bellini a ritenere che le stragi del 92\94 si pongono in “sorprendente linea di continuità logica e politica con la c.d. strategia della tensione, posta l’evidente finalità di minare  la fiducia dei cittadini nelle istituzioni repubblicane”.

Il “nuovo” orizzonte investigativo e processuale entro cui le stragi del 92\94 vanno collocate segna in realtà un ritorno all’ “eresia” che i magistrati e gli investigatori del pool antimafia dell’Ufficio istruzione degli anni ’80 avevano coltivato sfidando le connivenze e le complicità che avevano reso Cosa Nostra una componente fondamentale di un sistema criminale. Eresia che è costata a loro la vita ma che ha consentito di salvaguardare la credibilità della nostra democrazia.

*Procuratore della Repubblica di Reggio Emilia

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