NON SERVONO GLI EROI, MA È NECESSARIO RICORDARE ROCCO CHINNICI

Il 29 luglio del 1983 a Palermo, in via Pipitone, davanti al civico 59, un’auto imbottita di tritolo venne fatta saltare in aria. L’esplosione uccise il giudice Rocco Chinnici, i suoi agenti di scorta, il maresciallo Mario Trapassi, l’appuntato Salvatore Bartolotta e il portiere dello stabile Stefano Li Sacchi.
Sono passati quasi 40 anni da una delle stragi che caratterizzò la prima guerra di Cosa Nostra contro lo Stato. Da poche settimane è in libreria “Trecento giorni di sole. La vita di mio padre Rocco, un giudice scomodo” (Mondadori) scritto da Giovanni Chinnici, figlio del magistrato. Un racconto personale, ma anche pubblico della vita di un ragazzo che è rimasto orfano di un padre protagonista della lotta contro le mafie.
Perché è importante che si porti avanti la memoria di una figura fondamentale come Rocco Chinnici, lo spiega Angelo Mulone, amico di Giovanni, geologo, direttore generale della Geolab di Palermo, studente universitario e attivista politico nel periodo in cui la Sicilia venne aggredita violentemente e decise di reagire, scegliendo da che parte stare.

 

Il contributo di Angelo Mulone*

Sono nato nel 1956, ho vissuto da studente universitario il periodo duro del primo attacco della mafia allo Stato. Non ho conosciuto direttamente Rocco Chinnici, ma sapevo bene il valore di quanto facesse in quegli anni, valore che non verrà scalfito dal tempo. Sono un geologo, quando ero giovane ho fatto politica attiva: mi sento un testimone civile della storia della mia terra.

Tutta la mia generazione ha vissuto con partecipazione e con dolore una fase nella quale c’è chi ha scelto, legittimamente di abbandonare il paese per raggiungere le proprie ambizioni dove sembrava meno complesso e chi, come me, è rimasto, credendo di poter contribuire alla crescita di uno sviluppo sano del territorio, proprio in contrapposizione a chi voleva inquinarne ogni più piccola parte.

È maturata in me la convinzione che noi siciliani siamo per questo, anche ora, più attrezzati a prevenire e contrastare le mafie e le modalità diverse che da molti anni adoperano per conquistare altre parti e settori vitali dell’economia italiana. Gli onesti che hanno provato a creare un’attività e a farla crescere nel rispetto delle regole hanno anticorpi che permettono loro di rispondere ad una delle domande che più spesso mi sono sentito rivolgere: “Non hai paura come imprenditore che ti minaccino?”

Nel settore in cui opera l’azienda che dirigo, occupandosi di certificazione dei materiali adoperati nell’edilizia, mi è capitato, non posso negarlo, di subire pressioni per falsificare attestati, ma ho saputo reagire, difendendo i miei valori e anche il senso del lavoro mio e dei miei colleghi.

Non mi sono mai sentito temerario né eroico per questo. Ho fatto quello che sentivo di fare, altro non avrei potuto o voluto. La nostra regione ha bisogno di persone che facciano liberamente il proprio dovere senza dimenticare la bellezza e la storia che ci circonda. È fondamentale la memoria di chi ha dato la vita per difendere entrambi.

Per questo ho letto con emozione e senso di rispetto il libro scritto da Giovanni Chinnici che ho avuto il piacere di conoscere, diventandone amico. Il suo racconto è tragico, ma riporta anche la quotidianità di una famiglia e dell’uomo, il giudice Chinnici, che sapeva di rischiare, ma ha continuato a lavorare per il bene dei suoi figli, di tutti noi che un po’ ci siamo sentiti tali in questi anni.

Come ho scritto in una recensione pubblicata nel sito della libreria Modus Vivendi di Palermo è stata per me una lettura struggente e straordinaria, sia per il soggetto, sia per la voce narrante: la biografia di un uomo di giustizia visto dagli occhi di suo figlio, un piano sequenza scandito da morti eccellenti di magistrati e servitori di Stato; il tutto vissuto da un bambino che si fa adolescente e infine adulto. È anche la nostra storia, letta e snocciolata attraverso un calendario di caduti eccellenti, di vite infrante, di desideri soppressi e zittiti.

Non si tratta della banalità del male, non abbiamo a che fare con dei potenti che hanno “smesso di pensare”, per parafrasare Hannah Arendt, qui si parla di decisori istituzionali e menti criminali che purtroppo sanno pensare bene: tramando, condizionando, soffocando le aspirazioni e i diritti di intere generazioni per una società più giusta e semplicemente più umana; corrompendo e intossicando la nostra storia e il nostro futuro.

Per questo non bisogna essere solo resistenti alla mafia, ma anche agguerriti nemici e combattenti, lo dobbiamo a noi stessi, lo dobbiamo agli eroi che sono stati costretti a vivere e non sopravvivere ad una lotta solitaria e che li ha portati ad una morte annunciata.

Il Giudice Chinnici poteva svolgere il suo mestiere in maniera diversa, innocua per coloro contro chi si batteva e per sé, invece è andato avanti: lo devono sapere i più giovani, come pure c’è bisogno abbiano coscienza di cosa è stata allora la mafia per poi capire cosa sia diventata oggi. Manca una consapevolezza antimafiosa, soprattutto al nord, che espone maggiormente anche colleghi imprenditori: mi capita di ripetere ad alcuni di loro che non possono pensare di essere esenti dal rischio delle mafie.

La disattenzione è anche conseguenza della santificazione delle figure dell’Antimafia: sono relegate ad un passato che qualcuno vuole considerare solo in termini celebrativi ed altri vogliono dimenticare. Giovanni ha avuto il coraggio di elaborare il lutto che resterà perenne, di non negarlo, di andare oltre la percezione che accomuna anche coloro che non hanno vissuto direttamente la perdita di una persona cara. Rimane l’amaro sentimento della privazione e della mancanza di tutti coloro, vittime loro malgrado, che avrebbero potuto portare risultati importanti alla crescita dello Stato.

La cura della memoria collettiva genera senso civico. Il libro “Trecento giorni di sole. La vita di mio padre Rocco, un giudice scomodo”, (Mondadori, 2023) contribuisce a questo: c’è la storia personale di un uomo che si innesta in una trama di eventi riportata quasi in cronaca diretta. Si leggono i sentimenti di un bambino che si fa adulto, divenendo capace di riportare fatti di cui non si parla più.

Quando Rocco Chinnici ha compiuto la sua scelta professionale di diventare magistrato e di svolgere il suo lavoro nel modo integerrimo in cui lo ha fatto, la sua non era una professione ben vista a livello sociale in Sicilia. Oggi c’è quel consenso che allora rendeva più difficile portare avanti ogni sfida. Di contro è calata l’attenzione a prevenire e contrastare le mafie. Le istituzioni devono essere presenti ed utilizzare ogni strumento a disposizione per sensibilizzare, non bastano le lapidi. Ci vuole l’impegno a diffondere consapevolezza su quella che è stata, è diventata e deve essere la lotta alla mafia. Leggere e ricordare rientra tra le attività necessarie.

 

* Geologo e tecnologo dei materiali da costruzione, dal gennaio 1984 ad oggi si occupa, presso la GEOLAB s.r.l. di Palermo, della direzione generale della società e dei laboratori prove autorizzati dal Servizio Tecnico Centrale del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti. Partecipa alle attività di marcatura CEE dell’Organismo di certificazione, notificato in Europa. Coordina le attività di ricerca della Start up innovativa TEM LAB. Ha preso parte alle attività di monitoraggio e normazione dei gruppi di lavoro istituiti dall’Osservatorio sul calcestruzzo e dei tavoli tecnici, promossi dal Servizio tecnico centrale. Autore di diverse pubblicazioni e articoli a carattere scientifico e culturale.

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