Il principio. Le “cartiere” delle mafie sono società esistenti solo sulla carta e prive di reali strutture, che apparentemente prendono in subappalto i lavori affidati ad una società realmente operante e dotata di uomini e mezzi, in modo tale da rendere possibile la creazione di costi fittizi ed consentire, in generale, l’attuazione di meccanismi fraudolenti. È questo il principio affermato dalla terza sezione della Cassazione penale con la sentenza n. 50623 pubblicata l’8 novembre 2018.

Il caso. La pronuncia in commento ha tratto origine da un’indagine della Guardia di finanza di Chiari che – in base al monitoraggio fiscale di alcuni appalti aggiudicati negli anni 2011-2012 e vinti da poche imprese di medio-grandi dimensioni – aveva verificato l’esistenza di subappalti che, per il numero rilevante, erano risultati sospetti: in particolare, il prezzo del subappalto era spesso risultato così basso che il margine di netto ricavato del subappaltatore risultava prossimo allo zero, circostanza che aveva indotto gli inquirenti ad ipotizzare il ricorso a strategie di risparmio illecito sulle opere da realizzare.

L’indagine aveva poi consentito di convalidare tale ipotesi, perché, in relazione ad un gruppo d’imprese riferibili ai fratelli M. ‒ che operavano in collaborazione con la famiglia N. (in particolare, con il prestanome N.V. e sotto la regia fiscale di N.R.) ‒  era stato accertato un collaudato meccanismo che permetteva all’impresa appaltatrice C. di ottenere un risparmio sugli oneri fiscali e contributivi attraverso la costituzione di una serie di società “cartiere”, intestate a prestanomi stipendiati, prive di una sede effettiva e di personale, finalizzate alla mera assunzione di squadre di operai formalmente riferiti alla singola cartiera ma in realtà sempre in carico alla medesima impresa appaltatrice C.

La cartiera fatturava i servizi relativi alla fornitura di manodopera ‒ possibile, ad es., mediante il subappalto o con il ricorso al distacco del proprio personale all’appaltatrice C. ‒ e poteva così annotarne i costi deducibili all’interno della propria contabilità: dopo un breve periodo di attività, la cartiera veniva sciolta, spesso in passivo, e tramite la distruzione della contabilità veniva dissimulata l’inesistenza dei costi ingiustificatamente compensati.

Nel corso delle indagini erano poi emerse alcune anomalie nella gestione della società appaltatrice: la contabilità era seguita da un professionista di Oppido Mamertino, N.R., mentre il fratello di quest’ultimo, N.V., era subentrato nella legale rappresentanza di alcune società in precedenza formalmente amministrate da parenti stretti dei fratelli M..

Dal controllo effettuato sull’appaltatrice C. e sulla rete delle subappaltatrici, formalmente amministrate da N.V., erano così state individuate una serie di “cartiere”, la P., la P.D., la CE. e la M., che formalmente servivano a giustificare l’esternalizzazione dei costi dell’appaltatrice C., emettendo fatture inesistenti a favore di questa ed, occasionalmente, a favore di altre società.

La decisione. Con la pronuncia in rassegna la Corte di Cassazione dichiara manifestamente infondati i ricorsi proposti contro la decisione della Corte d’appello di Brescia: vengono così confermate le decisioni assunte dal Giudici di merito, i quali avevano evidenziato come la maggior parte delle imputazioni scaturiva dal fatto che le società P., CE. e P.D. erano, apparentemente e formalmente, delle entità autonome, mentre, in realtà, si trattava di propaggini fittizie della società appaltatrice C. create appositamente per fungere da schermo e consentire di raggiungere illeciti vantaggi, anche fiscali. I lavori erano stati sì realizzati, ma si trattava di lavori solo apparentemente imputabili alle “cartiere” P., CE. e P.D., in quanto il personale era in fatto riconducibile all’appaltatrice C. e da questa retribuito. Irrilevante era dunque la circostanza per la quale gli importi fatturati dalla P., dalla CE. e dalla P.D. erano stati effettivamente pagati dalla C., poiché le “cartiere” erano riconducibili al medesimo centro d’interessi economici che faceva capo all’appaltatrice C. ed i pagamenti costituivano un trasferimento di denaro solo apparente in quanto i fondi rimanevano sempre nell’ambito del medesimo centro d’interessi rappresentato dai fratelli M. e dai loro sodali.

Nella specie, non v’era stata la “classica” fatturazione tra oggetti estranei solo allo scopo di frodare il fisco, facendo fittiziamente figurare il compimento di operazioni mai realizzate, quanto piuttosto un meccanismo che prevedeva, ad opera di un unico centro direzionale, la costituzione di società esistenti solo sulla carta e prive di reali strutture, che avrebbero dovuto apparentemente prendere i lavori in subappalto dall’unica società realmente operante e dotata di uomini e mezzi ‒ l’appaltatrice C. ‒ in modo tale da rendere possibile la creazione di costi fittizi ed consentire, in generale, l’attuazione di meccanismi fraudolenti.

Alcuni ricorrenti avevano peraltro contestato l’accertamento di responsabilità per la configurabilità del reato associativo, svolgendo delle considerazioni anche sulla differenza con il concorso di persone. La Cassazione rigetta anche questo motivo di ricorso, rilevando come il tema era stato ben sviscerato dai Giudici di merito, i quali, dopo aver puntualmente richiamato la giurisprudenza, avevano osservato che, oltre alla partecipazione di tutti al compimento dei reati fine, ognuno dei membri del sodalizio criminoso aveva svolto un ruolo preciso: un componente aveva avuto una funzione direttiva della strategia complessiva, un altro componente, a stretto contatto con il fratello, s’era occupato dell’organizzazione e del concreto andamento del “sistema” illecito, altro ancora aveva messo a disposizione del gruppo le proprie conoscenze e la propria esperienza in materia tributaria, ed un ultimo componente aveva funto da prestanome di talune società, occupandosi, tra l’altro, della restituzione alla fonte dei fondi pervenuti a tali società per le fatture relative ad operazioni inesistenti. Il sistema messo in piedi, pertanto, non era stato costituito al fine di perpetrare un numero definito e limitato di reati, dovendo servire, piuttosto a rendere possibile l’attuazione di un numero indeterminato e potenzialmente illimitato di illeciti penali, con la conseguente configurabilità dell’associazione a delinquere e non del semplice concorso di persone nella commissione dei vari reati.

(a cura della dott.ssa Ilenia Filippetti,
Responsabile Sezione Provveditorato della Regione Umbria, Presidente di Forum Appalti)