Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure. Art. 21 Costituzione Italiana
Giuseppe Impastato, Giovanni Spampinato, Giancarlo Siani, Giuseppe Fava sono alcuni dei giornalisti che negli anni hanno perso la vita per mano mafiosa in Italia. Nomi che evocano un passato doloroso e allo stesso tempo richiedono un presente di giustizia, libertà d’espressione e verità. Queste storie di messa a tacere a causa di parole troppo scomode da sentire per radio o leggere in articoli di giornale non sono solo fatti del passato, perché il presente è purtroppo altrettanto sfacciato nel proporre testimonianze significative di donne e uomini minacciati, aggrediti, che continuano a raccontare ciò che hanno visto. Questi giornalisti dimostrano, ogni giorno, che sono capaci di affrontare continui avvertimenti in nome di un lavoro, di una missione, della passione ardente per i valori della giustizia e della verità.
Nel Rapporto 2018 stilato da Reporter senza frontiere (Rsf), l’Italia si posiziona al 46° posto su 180 nazioni per libertà di stampa. Il nostro Paese migliora a raffronto con il passato, salendo di sei posizioni dallo scorso anno (nel 2017, infatti, era al 52° posto). Tuttavia, confrontandola con le altre nazioni europee, si intende come il cammino da fare sia ancora lungo. Infatti, il World Press Freedom Index rileva come Norvegia, Svezia, Olanda e Finlandia abbiano un basso coefficiente sulle limitazioni alla libertà per i media e per questo occupano i primi posti della classifica. Germania (15°), Spagna (31°) e Francia (33°) seppur posizionate nei gradini più bassi della graduatoria rispetto alle nazioni sopraindicate, superano di almeno dieci posizioni l’Italia.
Nel rapporto di quest’anno si evidenzia l’alto numero dei reporter italiani sotto protezione, a rischio a causa delle pericolose minacce formulate in particolare, ma non solo, dalla mafia.
Dallo studio, si evince, come l’alto livello di violenza (che include aggressività verbale, fisica e psicologica) contro questi cronisti è allarmante, soprattutto nel centro sud.
Sono tre gli episodi recenti maggiormente risonanti dal punto di vista mediatico nazionale che dimostrano quanto ancora sia vivo il germe delle intimidazioni al mondo dell’informazione da parte delle organizzazioni mafiose:
- Le denunce di Paolo Borrometi:
- La testimonianza di Federica Angeli;
- Il caso del giornalista di Nemo, Daniele Piervincenzi e del video operatore Edoardo Anselmi.
Il primo testimone è Paolo Borrometi, direttore del sito La Spia e collaboratore dell’agenzia Agi.
Dopo aver già subito più volte, negli anni, minacce e anche una grave aggressione per le sue inchieste, Borrometi viene indicato come bersaglio da ammazzare nei dialoghi tra il boss Salvatore Giuliano e Giuseppe Vizzini, intercettati dalla polizia. Progetti di uccisione che servono per “dare una calmata a tutti”. Le parole intercettate, gelide e cariche di morte, hanno portato alla richiesta dell’ordinanza di custodia cautelare al gip di Catania e all’arresto di Vizzini e dei suoi due figli con altre accuse, mentre, è in corso il processo a Salvatore Giuliano e al figlio Simone, per le minacce al reporter. Paolo Borrometi, già da quattro anni vive sotto scorta e continua la sua ricerca costante di verità, a prezzo della sua libertà, delle sue relazioni, della sua vita. Il presidente della Fnsi, Giuseppe Giulietti, in un programma ha affermato «Un modo per metterci tutti quanti la faccia e far sapere che Borrometi non è isolato e neanche tutti gli altri».
Le altre due sono contingenze simili e diverse allo stesso tempo. Entrambi episodi avvenuti ad Ostia, frazione litoranea di Roma. Entrambe le testimonianze sono legate al clan Spada. Due storie di giornalisti, due storie di persone. Testimoni mediatici, ma soprattutto testimoni sulla propria pelle e a volte anche su quella della loro famiglia.
Federica Angeli si occupa di cronaca nera e giudiziaria per la redazione romana di Repubblica. Dal 17 luglio 2013 vive sotto scorta, in quanto ha subito minacce di morte mentre cercava informazioni per il suo lavoro, relativamente al racket degli stabilimenti balneari e alla loro spartizione del litorale. Ma non solo. Infatti, il 15 luglio dello stesso anno, si ritrovò ad essere testimone oculare di uno scontro a fuoco tra esponenti di due dei clan mafiosi che si contendevano il racket degli stabilimenti, a Ostia, dove vive. Federica Angeli non tacque ciò che vide, anzi avvisò subito polizia e carabinieri. Una testimonianza non dipesa dal lavoro che svolge tutti i giorni ma espressa piuttosto in quanto cittadina di quel territorio.
Questione di diritto di cronaca e libertà di informazione, ma anche questione di dovere di cittadinanza.
Dopo le denunce, arriva il processo. Il 19 febbraio 2018 la giornalista testimonia contro Armando Spada, imputato per minacce e violenza privata nei suoi confronti, nell’aula 10 del tribunale di Roma. Dopo quattro anni vissuti sotto scorta, la giornalista non era sola a testimoniare. L’aula, infatti, era affollata di colleghi giornalisti e da tanti studenti. La cronista prima di entrare a deporre ha dichiarato: «Ho pagato con la libertà personale, ma credo sia servito a qualcosa. Con le mie denunce tutti adesso conoscono la realtà di Ostia. Rifarei tutto. Oggi è giusto essere qui. In quell’aula io sarò al banco dei testimoni, ma con me ci saranno tutti i cittadini».
A supportare Federica Angeli vi è una vera e propria scorta mediatica. Un sit in a Piazzale Clodio, a cui hanno partecipato la Federazione nazionale della stampa italiana insieme a Rete NoBavaglio e Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti, Articolo21, Usigrai, Ordine dei giornalisti del Lazio e Associazione Stampa Romana, per dimostrare la vicinanza dei colleghi alla giornalista. Lo slogan è Maipiùsoli, a testimonianza del fatto che nessuna intimidazione e nessuna violenza può arrestare la loro missione, il loro spendere la vita per il diritto di cronaca. Con loro anche associazioni, giovani e cittadini in difesa della libertà d’informazione.
Stesso posto, storia diversa, in parte.
Daniele Piervincenzi, giornalista della trasmissione di Rai 2 “Nemo – Nessuno escluso” e l’operatore Edoardo Anselmi sono stati aggrediti il 7 novembre 2017 a Ostia. Immagini riprese che hanno fatto il giro dei media di tutta Italia.
Un’intervista a Roberto Spada conclusasi con una testata e la frattura complessa al setto nasale del reporter, filmata e trasmessa in tv non solo dal programma stesso ma su tutti i telegiornali, rimbalzando da un canale all’altro e diventando virale sul web.
Anche in questo caso si sono mosse le associazioni vicine alla stampa. Il 23 gennaio 2018, in contemporanea con l’udienza gup, è stato promosso un sit-in davanti al tribunale di Roma, a piazzale Clodio. Il presidio è stato organizzato da Articolo21 e Rete NoBavaglio e hanno partecipato la Federazione nazionale della Stampa italiana, insieme con l’Ordine nazionale dei giornalisti. Svoltosi contemporaneamente all’udienza in merito al rinvio a giudizio chiesto dalla Procura di Roma per i due aggressori, Roberto Spada e Ruben Nelson Alvez del Puerto, con l’accusa di lesioni personali e violenza privata con l’aggravante del metodo mafioso, il sit-in ha avuto l’intento di esprimere solidarietà e vicinanza al giornalista e all’operatore.
Questi sono solo tre delle numerose vicende di intimidazione, minaccia e violenza verso rappresentanti del mondo dell’informazione che purtroppo avvengono nel nostro Paese. Sono le più conosciute, non sono episodi unici o sporadici. Questo è ancor più evidente dal fatto che si è sentito il bisogno di pensare e realizzare un’iniziativa comunicazionale per accendere i riflettori su questa tematica. Infatti, numerose testate, agenzie, singoli giornalisti sono stati invitati a scendere in campo concretamente per costituire una “scorta mediatica” a sostegno dei reporter minacciati. Dal 25 aprile al 1° maggio, gli aderenti hanno riproposto sui loro media le inchieste, le vicende e l’impegno dei cronisti oggetto di intimidazione.
Tale campagna straordinaria è stata lanciata da don Luigi Ciotti insieme ad alcuni giornalisti “sotto tiro”, tra cui Federica Angeli, Michele Albanese, Lirio Abbate, Paolo Borrometi, Sandro Ruotolo. L’appello ha l’intento di invitare i direttori delle testate italiane a recuperare e diffondere le inchieste di chi combatte ogni giorno, mettendo a repentaglio la propria vita e quella dei familiari, per amore della verità. Non solo, con questa iniziativa, si vuole riportare l’attenzione dei decisori sul tema del contrasto alle mafie e alla corruzione, per inserirlo nuovamente tra le priorità dell’agenda politica e mediatica del Paese.
Sono stati numerosi gli aderenti alla campagna, tante le presenze confermate a seguito dell’appello. Oltre alla Federazione della Stampa, all’Ordine dei Giornalisti e all’Usigrai, numerosi direttori hanno appoggiato l’iniziativa: da Lucia Annunziata ad Antonio di Bella, da Luigi Contu a Riccardo Luna, da Mario Calabresi a Marco Tarquinio e tanti altri. Inoltre, tra i partecipanti vi sono i vertici istituzionali della RAI, la presidente Monica Maggioni e il direttore generale Mario Orfeo. Ai giornalisti si uniscono anche Articolo 21, Ossigeno, Libera Informazione e No Bavaglio.
L’iniziativa ci fa soffermare anche sui luoghi della mafia, quelli tradizionali e quelli nuovi. Infatti, la pratica di ostacolare la comunicazione è diffusa in tutto il territorio italiano e non solo. Non interessa solo Ostia, ma Calabria, Campania, Sicilia, altre regioni italiane e altri paesi nel mondo, come nel triste caso di Daphne Caruana Galizia, giornalista uccisa a Malta per le sue investigazioni, e del reporter Jan Kuciak, trovato assassinato in Slovacchia.
Troppe le parole, troppe le ricerche che hanno ispirato la messa a tacere di cronisti scomodi.
Oltre ad essere gravi attacchi alle persone, sono colpi pericolosissimi alla libertà di stampa e informazione.
Secondo Ossigeno per l’Informazione, dal 2006 ad aprile 2018 si contano 3603 giornalisti minacciati in Italia. Solo nei primi mesi del 2018, le minacce documentate sono a scapito di 76 reporter. I casi sono distribuiti nel Paese: svettano i 30 episodi in Campania, a seguire 17 episodi in Sicilia e 13 in Lombardia; 11 nel Lazio, 8 i giornalisti minacciati in Calabria, 6 in Basilicata, 3 in Puglia e 2 in Veneto e in Abruzzo; in Toscana, Sardegna, e Molise dall’inizio dell’anno vi è stato un reporter minacciato per regione. Nord e Sud non fa differenza. Diverse realtà locali si trovano a dover affrontare il diramarsi di una violenza intesa ad ammutolire chi vuole denunciare.
Sono numerosi e di diversa intensità i soprusi compiuti verso i cronisti. Tipologie di minacce diverse che a volte si susseguono al fine di azzittire voci gravose per chi trova nel silenzio omertoso un terreno fertile per i propri illeciti:
- aggressioni Fisiche, lievi o gravi: spari, intrusione in casa, esplosione o esplosivo;
- danneggiamenti: incendio auto o abitazione, furto, danneggiamento beni e oggetti personali o strumenti di lavoro;
- ostacolo all’informazione: diffida;
- avvertimenti: avvertimento a voce in presenza di terze persone, lettera minatoria o altre forme di minaccia per iscritto, lettera con proiettili attivi, lettera con bossolo esploso, discriminazione ed esclusione arbitraria, stalking, minacce di morte, minacce personali, telefonata minatoria, attacco hacker, minacce facebook e altri social network, insulto, striscioni e scritte, pedinamento;
- denunce e azioni legali: querela per diffamazione ritenuta pretestuosa, querela da parte di magistrato ritenuta pretestuosa; citazione in giudizio per danni considerata strumentale; incriminazione per rifiuto di rivelare le fonti di una notizia; abusi del diritto; incriminazione per pubblicazione arbitraria di atti giudiziari; sequestro giudiziario di documenti, archivi e strumenti di lavoro; avviso di garanzia per reati legati a pubblicazione notizie; oscuramento blog (totale o parziale).
Oggi, in Italia, parliamo di minacce e violenze, ma fino al 1993 nel nostro Paese si uccidevano i giornalisti. Dopo quell’anno non vi sono stati più casi. Questo cambiamento di rotta ha avuto avvio a seguito della costituzione e del successivo consolidamento di una struttura di protezione pubblica intorno a loro. Da una parte, le forze dell’ordine che difendono con la scorta i reporter che hanno ricevuto minacce e che per questo risultano a rischio; dall’altra, la tutela interna al mondo stesso dell’informazione con la presenza del sindacato, dell’Ordine dei Giornalisti e dell’Osservatorio.
Eppure rimangono dei nodi critici nel rapporto stampa/mafia, come è stato istituzionalizzato dalla Commissione antimafia nella Relazione sullo Stato dell’informazione e sulla Condizione dei Giornalisti Minacciati dalle Mafie, con relatore Claudio Fava, approvata il 5 agosto 2015.
La dinamica relazionale tra mafia e informazione è intricata e confusa, ed è per questo che per la prima volta, la Commissione antimafia ha dedicato una relazione specifica su questo tema. Inoltre, ha designato un apposito Comitato su mafia, giornalisti e mondo dell’informazione, in quanto, come si legge dalla stessa Relazione, «per le mafie controllare i propri territori, garantirsi impunità, costruire consenso e legittimità sociale vuol dire anche sottomettere la libera informazione, pretendere rispetto, costringerla al silenzio».
Nel presentare la Relazione, Fava ha affermato: «La diffusione geografica del fenomeno ci conferma un dato anche questo preoccupante ma anche questo inevitabile, alla luce dell’esperienza che abbiamo acquisito, cioè che non c’è regione italiana, tranne la Val d’Aosta, che negli ultimi anni non abbia dovuto censire casi di minaccia o di violenza. Ancora, le conseguenze degli atti di violenza o intimidazione sulla qualità complessiva dell’informazione: l’isolamento dei giornalisti, l’autocensura delle vittime, le censure che a volte vengono imposte dai direttori o dagli editori. Qui si arriva a un altro punto delicato che abbiamo voluto approfondire, il caporalato giornalistico, cioè le condizioni di grave precarietà economica in cui si trovano a dovere operare molte delle vittime di questi atti di violenza, di queste minacce; queste condizioni di precarietà, di marginalità economica, spesso anche geografica, li rendono particolarmente deboli di fronte agli atti di intimidazione. Infine, il Comitato è stato chiamato ad indagare anche l’altro aspetto del problema di cui accennavo poc’anzi, l’informazione contigua, compiacente, perfino collusa con le mafie, perché se è vero che gli episodi di compiacenza a volte sono l’effetto delle minacce subite è pur vero che esiste un reticolo di interessi criminali che ha trovato in alcuni mezzi di informazione e in alcuni editori il punto di saldatura e di reciproca tutela. In entrambi i casi a patirne le conseguenze è la qualità dell’informazione e anche la qualità della democrazia, perché chi intimidisce un giornale o corrompe un giornalista provoca un immediato, a volte irreparabile, danno sociale all’intera comunità civile» (seduta della Camera del 29 febbraio 2016).
Il Comitato, pertanto, ha avuto il compito di studiare, monitorare il rapporto tra mafia e informazioni, in particolare le intimidazioni, le minacce e il condizionamento subiti da alcuni giornalisti, la diffusione geografica del fenomeno e la condizione professionale delle vittime. Il lavoro del Comitato è durato un anno, sono state svolte ben 34 audizioni di giornalisti, direttori di quotidiani, rappresentanti delle organizzazioni di categoria e degli ordini professionali, magistrati, e sono state acquisite oltre 4 mila pagine di documenti e di atti giudiziari.
Nel corso delle audizioni, sono stati ascoltati in seduta plenaria: i direttori de Il mattino e del Corriere del Mezzogiorno (19 novembre 2014); il presidente dell’ordine dei giornalisti (17 marzo 2015; la Federazione nazionale della stampa (26 marzo 2015); il Direttore generale di Rai 1 (23 settembre 2015). Inoltre, è stata dedicata un’audizione specificatamente alla trasmissione Porta a porta nel corso della quale è stato intervistato il figlio di Totò Riina (7 aprile 2016) con i vertici della Rai.
Da queste audizioni sono emerse alcune questioni principali nel determinare il grado di condizionamento delle mafie nei confronti dell’informazione:
- gli atti di intimidazione nei confronti dei giornalisti: sono molto frequenti le minacce o gli atti di vandalismo verso i cronisti, da parte della criminalità. Per maggiori informazioni e dati numerici, guardare i dati di Ossigeno;
- le querele per diffamazione: un altro fenomeno negativo con risvolti significativi per l’attività del giornalista è rappresentato dalle querele per diffamazione. Queste crescono insieme alle citazioni per danni temerarie per importi elevatissimi. Sono mezzi legittimi, ma possono essere trasformati in espedienti per condizionare il cronista, soprattutto quelli che non sono legati a strutture editoriali solide, come i freelance. Non avere una rete editoriale a supporto o averne una piccola che non riesce ad offrire adeguate coperture di fronte alle querele e alle citazioni per danni temerarie costituisce un possibile elemento di blocco conosciuto da coloro che mettono in atto il tipo di incriminazioni nei confronti del giornalista. Un condizionamento negativo che può limitare la libertà di cronaca del reporter che si trova solo di fronte a un sistema giuridico ed economico più grande di lui e delle sue possibilità. Non è un caso, che si evince la necessità di modifiche alla legge sulla diffamazione, ma che tale riscrittura, avviata nel 2013, ha avuto un iter articolato;
- l’accertamento delle responsabilità disciplinari dei giornalisti: vi può essere, tuttavia, anche il caso in cui un esponente del mondo dell’informazione ponga in atto una condotta discordante da quella delineata dal relativo codice deontologico. In tal caso, si scorge l’impossibilità per l’ordine dei giornalisti, come altri ordini professionali, di assumere provvedimenti disciplinari nei confronti degli iscritti che agiscono in violazione del codice;
- la trasparenza sulla proprietà delle testate giornalistiche: si è considerata anche la sussistenza di alcune realtà editoriali che sviluppano forme di fiancheggiamento complice nei riguardi delle organizzazioni criminali, arginando quei giornalisti che invece si espongono nella denuncia delle organizzazioni mafiose. Sarebbe necessario, quindi, catalogare le proprietà dei prodotti editoriali, in un’ottica di trasparenza;
- Su alcune trasmissioni televisive e sul ruolo del servizio pubblico: questo punto è stato sollecitato da alcuni episodi controversi verificatosi su Rai 1 durante la trasmissione Porta a porta. Le vicende con protagonisti alcuni esponenti della criminalità organizzata hanno provocato reazioni polemiche da parte dell’opinione pubblica. Da tale evento, non può che emergere l’esigenza di una collaborazione con il servizio pubblico radiotelevisivo per limitare attraverso la sua attività il consenso a personaggi e gruppi dubbi e allo stesso tempo delineare percorsi informativi ed educativi per non smettere di raccontare chi ha contrastato le mafie, permettendo la conoscenza del fenomeno.
L’Aula di Montecitorio ha esaminato la relazione il 29 febbraio 2016 ed il 3 aprile 2016, approvando all’unanimità, al termine del dibattito, un atto di indirizzo e impegnando il Governo, per quanto di propria competenza, ad intraprendere ogni iniziativa utile al fine di risolvere le questioni e i problemi evidenziati nella citata Relazione.
L’attenzione su questo tema da parte di esponenti del Governo è evidente dall’elevato numero di interrogazioni e interpellanze presentate nella XVII legislatura.
Da una parte, vi sono virtuosi esempi di reporter che hanno subito minacce, ma non hanno ceduto al peso delle stesse, anche se per questo sono soggetti a stringenti misure di protezione e prevenzione. Dall’altra parte, tuttavia, vi sono anche casi di informazione collusa con le mafie, un’informazione che non fa più il suo dovere di scoprire e alzare il velo sul marcio o più semplicemente un’informazione parziale od omertosa, che non vede, non ascolta e non parla. A volte, questa è conseguenza delle minacce ricevute e non sostenute, altre, invece, è il risultato di consolidati rapporti di compiacenza e scambievole garanzia.
Gli aspetti che risultano essere centrali nell’analisi del rapporto tra mondo dell’informazione e mafia sono quindi relativi ad alcuni aspetti giuridici, contrattuali e disciplinari.
In primo luogo, è necessario rivedere la normativa riguardante la diffamazione, riforma in corsa d’opera ma ancora non del tutto compiuta. Questa rappresenta una svolta necessaria insieme a ulteriori passaggi per il contrasto dell’uso spregiudicato e intimidatorio di alcuni strumenti del diritto, tra i quali le querele temerarie e di azioni civili per danni altrettanto temerarie. Azioni pretestuose, per imporre un certo rispetto nel parlare di alcuni personaggi.
In tal caso non si può non fare riferimento a quei reporter che lavorano per testate locali, piccole, che non hanno possibilità di sostenerli in tali casi, ai freelance come è stato affermato precedentemente e a tutti coloro che non hanno contratti o strutture editoriali che possano permettersi spese economiche tali da poter affrontare ciò che deriva dalle querele e onorare fino in fondo la propria professione portando avanti il dovere di cronaca.
Vi è poi la è la precarietà del rapporto di lavoro, tante collaborazioni e pochi soldi, poche tutele, qualche contratto. Tutto questo può condizionare l’incisività dell’informazione. L’assenza di garanzie contrattuali non è un deterrente, anzi, al contrario, facilita il lavoro delle organizzazioni criminali nell’influenzare la stampa. È necessario riguardare al cronista sotto il punto di vista delle sue garanzie. Non possono essere percepite solo a livello nazionale dalle grandi testate, perché ci sono molti rappresentanti del mondo dell’informazione che localmente si spingono in avanti nella verità con inchieste pericolose per la loro persona, pur avendo una precarietà contrattuale. Se vogliamo assicurare la libertà di informare e garantire la libertà di tutti ad essere informati, è necessario tutelare dapprima questi cronisti. Si deve pensare anche a normare contrattualmente la figura del freelance, che è sempre più rilevante nel mondo dell’informazione.
In aggiunta, si dovrebbe poter garantire l’efficienza di alcuni provvedimenti disciplinari per coloro che manifestano un comportamento compiacente verso differenti tipi di potere condizionante la loro attività e reticente verso colleghi impegnati nella ricerca di una verità scomoda, lasciandoli in una difficile solitudine professionale e personale. Risulta necessario, inoltre, elaborare strumenti per fronteggiare la diffusione dei sistemi di esclusione, discriminazione e delegittimazione dei giornalisti. Per la mafia è importante influenzare l’opinione pubblica, soprattutto a livello locale, pertanto, un’informazione di parte è ricercata e ben protetta.
In conclusione, è interessante notare come a fronte di un numero purtroppo sempre crescente di minacce ai giornalisti, comunque nel nostro Paese ci siano esempi virtuosi di persone che hanno scelto di indagare, di ricercare o “semplicemente” di raccontare ciò che vedono fuori casa. Persone che accettano limitazioni alla propria libertà personale, che si scontrano quotidianamente con minacce e paure, che godono in alcuni momenti di tanta luce dei riflettori, ma dopo rimangono troppo spesso soli, nell’equilibrio precario della certezza di aver fatto la cosa giusta. Di queste persone ha bisogno il Paese, di queste ha bisogno l’informazione, quella libera dell’art. 21 della Costituzione.
L’aggressione ai giornalisti è un’emergenza democratica, a cui nessuna istituzione, di qualsiasi livello, può sottrarsi alla ricerca di soluzioni. Pertanto, è necessario creare un sistema a rete che coinvolga in egual modo rappresentanti nazionali e locali, insieme alle istituzioni e anche agli amministratori locali che affermano il loro no alle organizzazioni mafiose, per non lasciare i cronisti nella solitudine che la mafia spera per continuare con le sue minacce e aggressioni.
Perché sembrerà strano, ma mentre le inchieste della magistratura rientrano nei rischi presi in considerazione nell’attività mafiosa, le inchieste della stampa non possono essere accettate perché rappresentano un’intollerabile intromissione da mettere a tacere.
L’arma più importante che abbiamo di fronte ai grandi poteri è la matita, disse una volta un reduce della Strage di Portella della Ginestra. Con la matita, infatti, puoi studiare per conoscere i fatti che vivi e soprattutto puoi raccontare e immortalare quello che vedi.
L’ONU ha indicato il 3 maggio per celebrare la Giornata mondiale della libertà di stampa, un giorno in cui ricordare chi ha perso la vita per lasciare questo diritto come eredità agli altri, una ricorrenza per stare al fianco di chi è sotto tiro oggi, e che per questa libertà ha ceduto ad un’altra libertà quella personale, un giorno per ricordare gli sforzi fatti in nome di un diritto che nell’era dell’informazione costante è ancora di più sostanzialmente necessario alla nostra democrazia.
Maria Carnevali Kellal