PREMESSA. La Grande Chambre della Corte europea dei diritti dell’uomo, che può svolgere eccezionalmente la funzione di giudice di seconda istanza nell’ambito di questo organo giurisdizionale internazionale, ha respinto il ricorso del Governo italiano volto ad ottenere il riesame della sentenza emessa dalla Prima sezione della medesima Corte il 13 giugno 2019 (Marcello Viola c. Italia, ricorso n. 77633/16). Con essa è stata sancita la non conformità della misura dell’ergastolo c.d. “ostativo” all’articolo 3 della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali, a norma del quale «nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti». Segue una sintetica illustrazione della disciplina italiana relativa all’ergastolo, delle motivazioni addotte dai giudici di Strasburgo nonché dei possibili effetti della pronuncia sull’ordinamento interno.

L’ERGASTOLO. La pena massima comminabile nei confronti dell’individuo riconosciuto colpevole di reato è, per la legge italiana, quella perpetua dell’ergastolo, da scontarsi «con l’obbligo del lavoro e con l’isolamento notturno» (art. 22 c.p.). Cionondimeno, la legge n. 663 del 1986 ammette la concessione di «permessi premio» agli ergastolani che abbiano tenuto una regolare condotta e scontato almeno dieci anni di detenzione, per periodi non superiori a quindici giorni per volta e a quarantacinque giorni complessivamente nell’anno: la finalità è consentire al detenuto «di coltivare interessi affettivi, culturali o di lavoro» (art. 9). La L. 663/1986 prevede, altresì, la possibilità di ammettere al regime di semilibertà l’ergastolano che abbia espiato almeno venti anni di pena (art. 14). A norma dell’articolo 176 del codice penale, inoltre, «il condannato all’ergastolo può essere ammesso alla liberazione condizionale quando abbia scontato almeno ventisei anni di pena» (co. 3). Va infine considerato che si applica anche ai condannati all’ergastolo la disposizione sulla liberazione anticipata prevista dalla “legge sull’ordinamento penitenziario” (L. 354/1975), secondo la quale «al condannato a pena detentiva che ha dato prova di partecipazione all’opera di rieducazione è concessa, quale riconoscimento di tale partecipazione, e ai fini del suo più efficace reinserimento nella società, una detrazione di quarantacinque giorni per ogni singolo semestre di pena scontata» (art. 54).

L’ERGASTOLO “OSTATIVO”. Con l’introduzione dell’articolo 4-bis della sopra citata legge n. 354 del 1975 (così come modificato dal decreto-legge n. 306 del 1992, convertito con modificazioni dalla legge n. 356 del 1992), la pena dell’ergastolo può effettivamente risultare perpetua anche nell’ipotesi di commissione di una serie di delitti cui non faccia seguito la collaborazione con la giustizia. Coloro che si rifiutino di collaborare, infatti, sono estromessi dal godimento di permessi premio e misure alternative alla detenzione, esclusa la liberazione anticipata (che non può dunque mai essere concessa agli autori di questi reati), come pure dalla possibilità di essere assegnati al lavoro esterno (co. 1).

Rientrano in tale fattispecie: i delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico mediante il compimento di atti di violenza; una serie di delitti contro la pubblica amministrazione; quelli di associazione mafiosa, scambio elettorale politico-mafioso e commessi avvalendosi del metodo mafioso ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni mafiose; delitti contro la libertà individuale (riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù, prostituzione e pornografia minorile, tratta di persone, acquisto e alienazione di schiavi); il delitto di violenza sessuale di gruppo; quello di sequestro di persona a scopo di estorsione; alcuni delitti attinenti all’immigrazione clandestina; quelli di associazione per delinquere finalizzata al contrabbando di tabacchi lavorati esteri e associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope.

LA PRONUNCIA DELLA CORTE EDU. Secondo i giudici di Strasburgo, nella causa in oggetto, la pena dell’ergastolo c.d. “ostativo” inflitta al ricorrente (riconosciuto colpevole di associazione mafiosa, omicidio e altri gravi reati) «limit[a] eccessivamente la prospettiva di liberazione dell’interessato e la possibilità di un riesame» della pena stessa (par. 137). Ciò in quanto, se è vero che la legge italiana offre al condannato la scelta se collaborare o meno con la giustizia, e conseguentemente se godere o meno dei benefici penitenziari subordinati alla collaborazione, la libertà di tale scelta appare dubitabile; così come dubitabile appare «l’opportunità di stabilire un’equivalenza tra la mancanza di collaborazione e la pericolosità sociale del condannato» (par.116). D’altronde, «ci si potrebbe ragionevolmente trovare di fronte alla situazione in cui il condannato collabora con le autorità senza che, in ogni caso, il suo comportamento rispecchi una correzione da parte sua o la sua “dissociazione” effettiva dall’ambiente criminale, avendo l’interessato agito in tal modo al solo scopo di ottenere i vantaggi previsti dalla legge» (par. 119).

«Considerando la collaborazione con le autorità come l’unica dimostrazione possibile della “dissociazione” del condannato e della sua correzione – continua la Corte -, non si tiene conto degli altri elementi che permettono di valutare i progressi compiuti dal detenuto. In effetti, non è escluso che la “dissociazione” dall’ambiente mafioso possa esprimersi in modo diverso dalla collaborazione con la giustizia» (par. 121). Mentre, per converso, la «presunzione inconfutabile di pericolosità» determinata dalla mancata collaborazione con la giustizia «ha l’effetto di privare il ricorrente di qualsiasi prospettiva realistica di liberazione», mettendolo nella condizione di non potersi mai riscattare, qualunque comportamento egli tenga in carcere (par. 127). Difatti, ad oggi, «l’intervento del giudice è limitato alla constatazione del mancato rispetto della condizione di collaborazione, senza poter effettuare una valutazione del percorso individuale del detenuto e della sua evoluzione sulla strada della risocializzazione» (par. 129).

La Corte si dichiara ben consapevole delle ragioni storiche che hanno portato l’Italia all’adozione di una così severa disciplina in materia di regime penitenziario, mirante, tra le altre cose, ad una più efficace repressione delle organizzazioni criminali. Pur tuttavia,  conclude, «la lotta contro questo flagello non può giustificare deroghe alle disposizioni dell’articolo 3 della Convenzione, che vieta in termini assoluti le pene inumane o degradanti» (par. 130).

RIFLESSI SULL’ORDINAMENTO NAZIONALE. Ai sensi dell’articolo 46 della Convenzione, gli Stati contraenti «si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte sulle controversie nelle quali sono parti» (co. 1). Da ciò discende per lo Stato convenuto anche l’obbligo giuridico di scegliere «le misure generali e/o, se del caso, individuali che si rendano necessarie per porre fine ai problemi all’origine delle constatazioni» operate dalla Corte e agli effetti degli stessi (par. 140).

Con riferimento al caso di specie, «la natura della violazione riscontrata dal punto di vista dell’articolo 3 della Convenzione indica che lo Stato deve mettere a punto, preferibilmente su iniziativa legislativa, una riforma del regime della reclusione a vita che garantisca la possibilità di un riesame della pena, il che permetterebbe alle autorità di determinare se, durante l’esecuzione di quest’ultima, il detenuto si sia talmente evoluto e abbia fatto progressi tali verso la propria correzione che nessun motivo legittimo in ordine alla pena giustifichi più il suo mantenimento in detenzione, e al condannato di beneficiare così del diritto di sapere ciò che deve fare perché la sua liberazione sia presa in considerazione e quali siano le condizioni applicabili. La Corte considera, pur ammettendo che lo Stato possa pretendere la dimostrazione della “dissociazione” dall’ambiente mafioso, che tale rottura possa esprimersi anche in modo diverso dalla collaborazione con la giustizia e l’automatismo legislativo attualmente vigente» (par. 143).

Il diritto convenzionale, effettivamente, è una fonte che nell’ordinamento italiano non può beneficiare del rango costituzionale, né per il tramite dell’art. 10 Cost. (che richiama il diritto internazionale consuetudinario), né per mezzo dell’art. 11 Cost. (tuttora riferibile, secondo la giurisprudenza costituzionale, esclusivamente all’Unione europea): non è pertanto in grado di provocare l’abrogazione o la disapplicazione diretta della norma interna che dovesse con esso confliggere. Ad ogni buon conto, l’operatività della CEDU ha trovato il suo inquadramento costituzionale a partire da due note sentenze della Corte costituzionale (la n. 348 e la n. 349 del 2007). Facendo leva sull’art. 117, comma 1, Cost. – laddove questo, a seguito nella riforma del 2001, stabilisce che il legislatore italiano, nazionale o regionale che sia, è tenuto al rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali – il giudice delle leggi ha assegnato alla CEDU «la posizione di fonte di diritto internazionale pattizio interposta tra la Costituzione e la legge ordinaria, come tale insuscettibile bensì di legittimare la disapplicazione della legge interna, ma idonea ad integrare il parametro del giudizio di costituzionalità» [Nania, 2012]. In altri termini, la Corte costituzionale può dichiarare l’incostituzionalità di una norma contrastante con la CEDU (o qualunque altro trattato internazionale) per violazione dell’art. 117, co. 1, Cost. Vige del resto una condizione: la CEDU, o comunque l’interpretazione che ne dà il suo giudice, deve risultare compatibile con i principi costituzionali.

ottobre 2019

 

(a cura di Luca Fiordelmondo, Master APC dell’Università di Pisa)