“La guerra alla droga è fallita”. E’ con questa frase, semplice ed incisiva, che si apre il dossier elaborato dalla Commissione Globale per le Politiche sulle Droghe, alla cui redazione hanno partecipato eminenti personalità politiche, quali César Gaviria (ex Presidente della Colombia), Javier Solana (ex Alto Rappresentante dell’UE per la Politica Estera e la Sicurezza Comune) e Kofi Annan (ex Segretario Generale delle Nazioni Unite).
In effetti, ad ormai 45 anni da quando il Presidente americano, Richard Nixon, aveva indicato la droga come il nemico pubblico numero uno degli Stati Uniti, seguito a ruota dall’intero mondo occidentale, non sembra che questa guerra abbia portato ai risultati inizialmente sperati. Questi si sarebbero dovuti misurare in una diminuzione del crimine, in un miglioramento della salute ed in un maggiore sviluppo economico e sociale. Probabilmente, però, i metodi utilizzati per raggiungerli non si sono rivelati opportuni.
Infatti, come dimostrato dalla Commissione, in un solo decennio, dal 1998 al 2008, è stato registrato un consistente incremento nell’uso delle droghe, in particolare dell’8,5% per quanto riguarda la cannabis, del 27% per la cocaina e del 34,5% per quanto concerne gli oppiacei.
I metodi e le strategie utilizzati nel corso della “guerra alla droga” si sono basati essenzialmente sul proibizionismo e sulla repressione, attraverso le forze di polizia, non solo dei produttori e dei trafficanti, ma anche dei consumatori. I risultati raggiunti, dunque, sono stati misurati attraverso il numero e il calibro delle persone arrestate, attraverso i processi giudiziari e l’asprezza della pena comminata e tramite i quantitativi di sostanza stupefacente sequestrata. Questi mezzi, però, non hanno sicuramente consentito di porre un freno al fenomeno della criminalità organizzata, che dal traffico di droga ricava probabilmente la parte più cospicua dei suoi profitti. L’uccisione di Pablo Escobar o l’arresto di Roberto Pannunzi –il brocker della ‘ndrangheta che ha consentito alle cosche calabresi di entrare in affari con i cartelli della droga colombiani- possono aver inflitto un duro colpo alle organizzazioni criminali, ma di certo non hanno portato all’esaurimento del mercato illegale della droga. La legge n. 40/2006, cosiddetta Fini-Giovanardi, attraverso l’annullamento della distinzione tra droghe leggere e pesanti e prevedendo pene più severe per i consumatori, rispetto alla legislazione precedente, non ha di certo portato ad una diminuzione dell’uso di stupefacenti; anzi, come molti sostengono, proprio a causa della sua asprezza, la Fini-Giovanardi può essere considerata come una delle cause del problema del sovraffollamento delle carceri italiane.
Come si spiega, pertanto, che nonostante tutte le accortezze legislative di cui ci si è muniti e i mezzi repressivi utilizzati, non si sia registrata né una diminuzione dei consumi né una sconfitta di chi alimenta questo business in qualità di produttore/trafficante?
Il Premio Nobel per l’Economia del 1976, Milton Friedman, aveva fatto notare, già agli albori della guerra alla droga, come i costi a sostegno di tale conflitto superassero i benefici e che il tentativo di far diminuire forzatamente l’offerta non avrebbe portato ad una conseguente diminuzione della domanda, bensì ad un aumento dei prezzi e ad entrate sempre più consistenti per le organizzazioni criminali. Va considerato, tra l’altro, che anche quando si verifica l’arresto di un grande trafficante, vi è sempre qualcuno dopo di lui pronto a coglierne l’eredità, cosa che avviene, il più delle volte, a seguito di un grande spargimento di sangue tra i clan rivali interessati ad accaparrarsi l’enorme giro d’affari. In particolare, uno studio condotto da un gruppo di accademici della British Columbia ha dimostrato che, in molti luoghi degli Stati Uniti, ad un aumento delle azioni da parte delle forze dell’ordine corrisponde, nel 91% dei casi, un incremento nell’uso della violenza da parte dei narcotrafficanti.
Inoltre, secondo Antonio Maria Costa, ex Direttore dell’Ufficio dell’Onu su droga e crimine, le politiche proibizioniste e repressive attuate dalla maggioranza dei Paesi avrebbero prodotto, nella realtà dei fatti, svariati effetti collaterali, i quali possono essere raggruppati in cinque categorie:
- La crescita di un gigantesco mercato nero criminale, finanziato attraverso i profitti commisurati al rischio, ottenuti per soddisfare la domanda globale di droghe;
- Uno sbilanciamento della considerazione politica, rea di aver usato scarse risorse nella prevenzione, in quanto indirizzate in larghissima parte verso azioni di polizia contro il mercato criminale;
- Un dislocamento geografico –il cosiddetto effetto mongolfiera– con il quale la produzione di droga cambia luogo per evitare le attenzioni delle forze dell’ordine;
- Uno spostamento nell’uso di sostanze, vale a dire il cambiamento nelle preferenze dei consumatori verso nuove sostanze quando la loro droga, scelta precedentemente, diviene difficile da ottenere;
- La considerazione dei consumatori di droga alla stregua di criminali da emarginare ed escludere.
Nel corso di 45 anni di guerra alla droga, forse, ci si è focalizzati eccessivamente sulle azioni di polizia e sulle pene. Le principali istituzioni interessate sono state e continuano ad essere le autorità militari, quelle di controllo alla frontiera e la Polizia, tutte dirette dal Ministero di Giustizia e dal Ministero dell’Interno. L’evidenza, però, ha dimostrato come le strategie repressive utilizzate non abbiano portato a concreti risultati positivi, semmai ha indicato il fallimento di questa campagna. Potrebbe quindi essere più opportuno affrontare il problema droga attraverso altri mezzi e a seguito di un opportuno cambiamento di prospettiva.
Innanzitutto, come suggerito ancora dal rapporto della Commissione, un primo provvedimento, non solo di natura giuridica, ma anche e soprattutto culturale, potrebbe essere la sostituzione della criminalizzazione e della punizione dei consumatori con l’offerta di servizi sanitari e di apposite terapie di cura. Infatti, l’ipotesi secondo la quale punire duramente, anche con il carcere, coloro che fanno uso di droghe avrebbe portato ad un calo dei consumi, si è rivelata inesatta. Al contrario, la sperimentazione di modelli di depenalizzazione potrebbe portare a dei risultati incoraggianti. A tal proposito, è utile soffermarsi sull’esempio del Portogallo, il Paese europeo che, prima del 2001, registrava il più alto tasso di HIV tra i consumatori di eroina, con ben 2 mila nuovi casi all’anno (si tenga conto che il Portogallo ha una popolazione di soli dieci milioni di abitanti) all’interno dell’UE. Proprio per far fronte a tale problema, il governo portoghese decise di istituire una commissione anti-droga composta da undici esperti, la quale giunse alla conclusione che era necessario partire dal presupposto secondo il quale i consumatori non sono dei criminali, bensì dei malati e che, per tale motivo, la materia sarebbe dovuta essere di competenza del Ministero della Sanità e non più di quello della Giustizia. Si giunse così alla promulgazione della legge n. 30/2000, entrata in vigore nel luglio del 2001, che ha depenalizzato l’uso di tutte le droghe illecite e ha fissato, tramite apposite tabelle, il quantitativo massimo detenibile per soddisfare un fabbisogno di dieci giorni; in particolare:
- 25 grammi di marijuana;
- 5 grammi di hashish;
- un grammo di eroina;
- un grammo di MDMA-il principio attivo dell’ecstasy.
Ebbene, a 15 anni di distanza dall’adozione di suddetta legge, Joao Goulao -promotore del dispositivo legislativo e direttore dell’Istituto per le droghe e le dipendenze- ha affermato che l’uso di droghe è diminuito tra i giovani, l’epidemia di AIDS tra i consumatori è stata arginata, vi è stata una diminuzione della delinquenza legata al traffico di droga e sono aumentati i sequestri di sostanze. Il tutto è supportato dai dati europei, secondo i quali il Portogallo presenta uno dei dati più bassi dell’UE per consumo di marijuana tra persone con più di 15 anni e con il consumo di eroina-tra i 16 e i 18 anni- sceso dal 2,5% all’1,8%, così come il tasso di infezione da HIV. La questione, dunque, viene trattata come un problema medico e non più penale, dato che chi viene trovato in possesso di sostanze stupefacenti non è più tratto in arresto, ma condotto dinnanzi ad una commissione (la Commissione di avvertimento sulle tossicodipendenze, composta da un giurista, uno psicologo ed un medico) che ha il compito di valutare il percorso dell’utilizzatore, il suo livello di consumo della sostanza e di proporre, infine, un sostegno psicologico o la possibilità di sottoporsi ad un percorso terapeutico e riabilitativo finanziato dallo Stato. Il tutto sembra aver portato a risultati concreti, come dimostrato dai dati menzionati.
Un ulteriore passo oltre la depenalizzazione è stato fatto in Uruguay, dove, il 10 dicembre del 2013, il Senato ha approvato la legge riguardante la legalizzazione della marijuana, attraverso la quale se ne è resa possibile la produzione, la vendita ed il consumo. La legge, pensata soprattutto per togliere potere alle organizzazioni criminali legate al narcotraffico, permette a tutti i privati cittadini maggiorenni di coltivare un massimo di sei piante, con una produzione annuale che non può superare i 480 grammi. E’ stata data anche la possibilità di creare dei “Club per la marijuana”, vale a dire delle associazioni che comprendano un numero di soci dai 15 ai 45, i quali, collettivamente, possono coltivare un massimo di 99 piante.
Va però precisato, che in Uruguay manca ancora l’attuazione dell’elemento principale della legge di legalizzazione, cioè la vendita da parte dello Stato attraverso la registrazione dei compratori e una rete di distribuzione di punti vendita autorizzati (le farmacie). Secondo l’impianto legislativo, infatti, la distribuzione dovrà passare obbligatoriamente dallo Stato ed ogni cliente si dovrà registrare in un apposito database gestito dal Ministero della Salute e potrà comprare un massimo di 40 grammo al mese. Per il momento, dunque, l’alternativa per i consumatori che non vogliono passare attraverso la coltivazione è quella di attendere la vendita autorizzata o continuare a rifornirsi dal mercato illegale. Mancando quindi dati ufficiali è impossibile dire se il percorso seguito dal Paese sudamericano porterà ai risultati sperati al momento dell’approvazione della legge.
Al di là dei provvedimenti legislativi di depenalizzazione e di legalizzazione, un altro punto sul quale si dovrebbe maggiormente investire è quello della prevenzione, in modo tale che si possa evitare l’ingresso dei giovani nel consumo di droga e che si impedisca ai consumatori saltuari di divenire consumatori più problematici o dipendenti. I primi tentativi in merito non hanno avuto il successo sperato, a causa della cattiva programmazione e della non adeguata implementazione, come sostenuto dal rapporto della Commissione. Quelli che, invece, hanno registrato migliori risultati, si sono focalizzati su gruppi particolari a rischio, come i membri di bande giovanili, i bambini negli istituti o con problemi a scuola o con la polizia, prevedendo programmi misti di educazione e di sostegno sociale, così da evitare che una parte di loro diventi consumatore abituale di droghe o dipendente.
Anche gli indicatori per valutare i progressi effettuati necessiterebbero di una rivisitazione. Come già argomentato in precedenza, ad oggi la valutazione sui passi in avanti registrati è calcolata tramite gli arresti, le pene e il sequestro di sostanze stupefacenti. La Commissione, al contrario, suggerisce l’uso di nuovi indicatori, quali, ad esempio:
- il livello di sviluppo socio-economico nelle comunità dove sono concentrati produzione, vendita o consumo di droga;
- il livello di tossicodipendenza nella comunità;
- il livello di morti per overdose;
- il livello della microcriminalità commessa dai tossicodipendenti;
- il numero di vittime di violenza e di intimidazione in relazione al mercato della droga;
- il livello di corruzione generato dal mercato di droga.
Un migliore utilizzo delle risorse pubbliche andrebbe quindi indirizzato verso programmi sanitari e sociali, mentre maggiore dovrebbe essere il ricorso alle forze di polizia nel tentativo di contrastare gli aspetti violenti e di corruzione legati al traffico di droga. Infatti, lo sforzo di ridurre l’offerta attraverso azioni repressive da parte delle forze dell’ordine, come testimoniato da una teoria elaborata da MacCoun e Reuter, potrebbe funzionare laddove le fonti dell’offerta stessa siano controllate da un piccolo numero di organizzazioni criminali e non di grandi proporzioni. In questo caso, opportune operazioni di polizia possono avere il potenziale per smantellare la rete criminale, ma dove i mercati delle droghe sono diversificati e gestiti da ben strutturate organizzazioni (come il caso delle mafie italiane) è impensabile prevenire l’uso di stupefacenti tramite un contrasto esclusivo dell’offerta.
Per concludere, dunque, l’invito alle forze politiche da parte della Commissione Globale per le Politiche sulle Droghe è quello di prendere definitivamente atto del fallimento della guerra alla droga condotta con i mezzi e le strategie fin qui utilizzate, con l’auspicio che si possa giungere all’adozione di provvedimenti già efficacemente sperimentati o idearne di nuovi che possano porre un freno ad un problema dalla portata globale.
(A cura del dott. Fabrizio Cutrupi)