Premessa. Il Ministro dell’Interno ha trasmesso alle Camere, il 28 dicembre 2018, la Relazione sull’attività svolta e sui risultati conseguiti dalla Direzione Investigativa Antimafia nel primo semestre del 2018, della quale si sintetizzano i passaggi più significativi (per le precedenti relazioni clicca qui).

‘NDRANGHETA (pp. 11-54). La DIA, in continuità con le precedenti relazioni, sottolinea come la criminalità organizzata calabrese mantenga intatta la propria supremazia nel traffico degli stupefacenti, non solo a livello nazionale. Gli investigatori evidenziano l’importanza dei riti di affiliazione che “non costituiscono mai né un retaggio del passato né una nota di colore” ma sono necessari all’organizzazione per definire appartenenza e gerarchie, rafforzando il senso di identità e la riconoscibilità all’esterno. Non solo sui territori di origini, ma anche in contesti extraregionali e perfino internazionali. Dal punto di vista imprenditoriale vengono riconosciute le “potenzialità criminogene della ‘ndrangheta, proiettata verso ambiti delinquenziali sempre più raffinati, nel contaminare pericolosamente l’economia legale, alterando le condizioni di libero mercato con il monopolio di interi settori, da quello edilizio, funzionale all’accaparramento di importanti appalti pubblici, a quello immobiliare o delle concessioni dei giochi”.

Infiltrazioni sempre più diffuse anche nel Nord Italia, come dimostrano le numerose interdittive antimafia spiccate nell’area “per società che operano nel settore edilizio, del trasporto e smaltimento rifiuti, dell’autotrasporto e della ristorazione”. Nella relazione si sottolinea come la ricerca di prestanome – necessari per accaparrarsi gli appalti pubblici – prescinda dal luogo di origine degli stessi e “dal contesto geo-criminale in cui insistono le sedi legali delle società”. La cosiddetta area grigia è costituita soprattutto da elementi che operano nel settore imprenditoriale, bancario e sanitario.

La globalizzazione della criminalità organizzata calabrese e la replica del suo modello organizzativo è confermata una volta di più dalla DIA, che cita Germania, Svizzera, Spagna, Francia, Olanda, Est Europa, Nordamerica e Australia quali contesti in cui le ‘ndrine sono maggiormente radicate. Una strategia espansionistica, orchestrata dal comando strategico che ha la testa nella provincia di Reggio Calabria, finalizzata a “riciclare e reimpiegare i capitali illeciti, utilizzando tecniche di occultamento sempre più sofisticate, frutto principalmente del traffico internazionale di stupefacenti e delle estorsioni”. Un’evoluzione che richiede “un profilo tecnico – investigativo e di analisi sempre più elevato, in grado di intercettare modus operandi in continua trasformazione”.

COSA NOSTRA (pp. 55-117). Si conferma per Cosa Nostra uno stato generale di criticità legato al riassetto degli equilibri interni, sia a seguito dell’incarcerazione e della successiva morte dei capi storici, sia per le continue attività investigative che stroncano sul nascere questi tentativi di riorganizzazione. Sono i clan palermitani ad influenzare maggiormente l’intera struttura criminale, “sia sotto il profilo della gestione degli affari illeciti più remunerativi, sia con riferimento alla guida dell’organizzazione”.

“Su questa situazione di sofferenza – scrive la Direzione Investigativa Antimafia – ha ulteriormente inciso la lunga mancanza di una effettiva struttura di vertice (la Commissione, c.d. Cupola) legittimata a prendere decisioni in nome di tutta Cosa nostra… La ricostituzione di questa struttura, dopo molti anni di inattività, non sembrerebbe, tuttavia, auspicata da tutte le rappresentanze dei mandamenti, specie di quelli più attivi nella gestione delle attività economiche anche fuori dal territorio di competenza che, abituati ad agire quasi in autonomia, potrebbero soffrire la restrizione delle regole imposte dalla Commissione”. Una situazione, quella descritta, che trova conferma negli ormai frequenti sconfinamenti territoriali, ingerenze e iniziative non autorizzate e che vede numerosi “uomini d’onore” rivendicare per le proprie articolazioni criminali delle posizioni di autonomia. Si parla di “un venir meno della compattezza” e, conseguentemente, “della forza di Cosa nostra intesa come struttura unitaria”.

Altri due aspetti che tendono a tenere in fibrillazione il mondo di Cosa nostra sono le sempre più frequenti scarcerazioni per fine pena dei boss che “nutrono aspettative e pretese di recupero, sostanziale e formale, del potere che hanno dovuto cedere dal momento del loro arresto” e il ritorno dei cosiddetti “scappati”, gli sconfitti della seconda guerra di mafia degli anni Ottanta che vide uscire vincitori i Corleonesi di Riina e Provenzano, oggi deceduti.

Altre criticità evidenziate dalla DIA:

  • La contrapposizione tra la corrente oltranzista, legata alla “linea Riina” e la corrente moderata, meno disposta all’uso della forza;
  • La figura e l’inquadramento di Matteo Messina Denaro, latitante da oltre 25 anni. Dopo il dominio dei Corleonesi, i boss palermitani non sarebbero favorevoli ad essere “rappresentati” da un capo non palermitano e contraddistinto da “un’assenza operativa” come nel caso del boss di Castelvetrano (Trapani).

Al netto di queste criticità, Cosa nostra si conferma “una struttura ancora vitale, dinamica e plasmabile a seconda dei mutamenti delle condizioni esterne… la capacità di imporre il rispetto di regole condivise, che consentano agli affiliati di identificarsi nell’organizzazione, rappresenta sempre il migliore collante per garantirne la sopravvivenza. Cosa nostra sembra avvertire il bisogno, per rigenerarsi, di proseguire nel processo di restaurazione delle regole fortemente anticipato da Bernardo Provenzano, con la conferma al ricorso alla tradizione attraverso schemi organizzativi idonei a riproporre i modelli unitari del passato”.

LA STIDDA. Emerso nella Sicilia centro-orientale come organizzazione criminale fin dalla metà degli anni Ottanta, il fenomeno della Stidda è una realtà criminale che aveva dimostrato “velleità di contrapposizione alle storiche famiglie di Cosa nostra”, ma è stata “ridimensionata nei propositi, tanto da arrivare a recenti forme di alleanza o di convivenza”. La Stidda mantiene comunque “un significativo potenziale delinquenziale, ad esempio nelle dinamiche di gestione dei mercati ortofrutticoli. Oltre al tradizionale controllo militare del territorio, mediante attività estorsive e usurarie, nonché alla gestione delle piazze di spaccio, le consorterie della Sicilia centro-orientale hanno incrementato l’infiltrazione nel mondo dell’imprenditoria. La penetrazione negli enti locali e la corruzione di soggetti preposti all’amministrazione della cosa pubblica, rappresenta l’occasione per accaparrarsi finanziamenti ed incentivi economici, utili anche per le attività del riciclaggio”.

CAMORRA (pp. 118-171). Conferme rispetto alle ultime relazioni arrivano anche dallo stratificato universo della criminalità organizzata campana: un assetto organizzativo privo di una struttura e frammentato. Da una parte alcuni clan dal potere consolidato e da una forte presa sui contesti di radicamento, dall’altra un “sottobosco di gruppi, spesso tra loro in conflitto per la supremazia su un determinato territorio e per la gestione monopolistica delle attività illecite”.

La scomparsa dei capi carismatici ha visto il proliferare di assunzioni di ruolo da parte di soggetti incapaci di leadership e contraddistinti da una mancanza di strategia e utilizzo diffuso della violenza. “Pregiudicati poco più che adolescenti si sono posti a capo di gruppi emergenti, tentando di assumere il predominio nel controllo del territorio e degli affari illeciti, in particolare delle piazze di spaccio, delle attività estorsive ai danni degli esercizi commerciali e dei fiorenti mercati della contraffazione, con azioni connotate da notevole aggressività, con omicidi, attentati e sparatorie. L’assenza di una solidità gestionale è degenerata in lotte intestine, che hanno inciso sulla stabilità di un gran numero di organizzazioni camorristiche”. Altri gruppi sono stati maggiormente in grado di adottare una strategia in grado di assorbire i contraccolpi giudiziari e riorganizzarsi.

“Accanto ad uno scenario criminale della città partenopea caratterizzato da una spiccata frammentazione e con un numero indefinito di gruppi criminali instabili – sottolinea la DIA – in provincia e nel casertano permangono le storiche consorterie camorristiche, ben insediate nel tessuto sociale e radicate sul territorio…benché fortemente colpite da provvedimenti cautelari personali e patrimoniali e da pesanti sentenze di condanna, mantengono salda la capacità di consenso e legittimazione su gran parte della collettività, grazie ad un’immutata forza di intimidazione ed assoggettamento. La forza attrattiva di reclutamento dei nuovi affiliati risiede nella capacità dei gruppi di retribuire le attività illecite prestate, ma anche nella garanzia di offrire una vera e propria assistenza legale agli indagati, assicurando il mantenimento dei familiari in caso di detenzione. La presenza di parenti all’interno della gerarchia di comando conferma la centralità della famiglia, quale strumento di coesione”.

Le organizzazioni camorriste si confermano terminali di ingenti partite di droga, avvalendosi di consolidati contatti in tutta Europa (Germania, Belgio, Olanda, Spagna) e Sud America; Paesi e continenti in cui sono insediate da decenni.  La rilevanza del traffico di stupefacenti nell’economia criminale dei clan campani “è confermata da diverse attività investigative che certificano le proiezioni internazionali dei gruppi coinvolti e gli accordi tra i diversi sodalizi, finalizzati ad ottimizzare le competenze nella composita filiera dello smercio: trattativa con i fornitori, invio dei corrieri, custodia e raffinazione, tenuta della contabilità, distribuzione sul territorio”.

Altri settori di particolare interesse sono la contraffazione, la sanità, la gestione delle slot machine e delle scommesse sportive online. Sul gioco d’azzardo i clan “traggono ingenti profitti sia direttamente, riuscendo a gestire tutta la filiera delle operazioni che attengono ai giochi, sia indirettamente, attraverso prestiti a tassi usurari. Quello del gioco è solo uno dei tanti settori dai quali si evince che le organizzazioni criminali campane non si limitano, in una logica parassitaria, a consumare reati vessando imprenditori, commercianti e comuni cittadini, ma si sono direttamente inserite nella gestione di attività economiche, interagendo anche con l’economia legale e attraverso circuiti ufficiali”.

CRIMINALITÀ PUGLIESE (pp. 172-225). Quella operante in Puglia è una criminalità in evoluzione, che sta accelerando il processo di omologazione alle altre consorterie mafiose che operano in Italia, attraverso la tradizione del familismo mafioso e dei riti di affiliazione. Emergono come novità assoluta collegamenti tra gruppi della provincia di Bari e tra altri clan operanti in altre province della regione. Nonostante permanga quella che la DIA definisce “frammentarietà strutturale da sempre peculiare delle consorterie delinquenziali locali”.

“Sembrerebbe in atto – si legge nella relazione – un avvicinamento tra camorra barese, mafia foggiana e Sacra Corona Unita, al punto che, in alcuni casi, la cerimonia di affiliazione di sodali baresi è stata celebrata alla presenza di un rappresentante della SCU. Una circostanza che assume, anche sul piano simbolico, un valore non trascurabile. Le tre menzionate organizzazioni mafiose pugliesi, pur riconoscendosi come autonome, specie nel controllo militare del territorio, sembrano proiettate, sotto l’egida delle famiglie dominanti, alla realizzazione di una sinergica struttura multi-business, con una mentalità criminale più moderna e specializzata, che consente loro di spaziare nei vari ambiti dell’illecito (come quello delle scommesse illegali on-line) e di affermare una tendenza espansionistica verso i settori in crescita dei mercati legali. In tale prospettiva, le associazioni criminali si dimostrano capaci di attuare efficaci strategie d’infiltrazione nell’indotto economico-finanziario gestito dagli enti locali, in particolare nel settore dei rifiuti. Questa mafia degli affari, proiettata verso obiettivi di medio-lungo termine, utilizza il potere di assoggettamento per condizionare non solo gli Enti locali, ma anche il tessuto imprenditoriale. In tali ambiti, la corruzione diventa il grimaldello per permeare la Pubblica Amministrazione”.

Tale trend evolutivo emerge non solo dalle numerose interdittive antimafia spiccate nel periodo, quanto anche dallo scioglimento per infiltrazioni mafiose di ben 3 amministrazioni locali (Mattinata in provincia di Foggia, Surbo e Sogliano Cavour in provincia di Lecce). Le infiltrazioni vengono segnalate anche in società attive nei settori merceologici dell’edilizia, del mercato ittico, commercio di legname, pastorizia, servizi funebri, raccolta e trasporto nettezza urbana, servizi di assistenza per richiedenti asilo e per soggetti vulnerabili, gestione impianti sportivi. Si conferma un grande interesse per il comparto agroalimentare – soprattutto nel Foggiano ma anche nel Tavoliere – L’opportunità di assoldare a basso costo braccianti stranieri ha visto una crescita esponenziale del fenomeno del cd. caporalato e di tutto l’indotto sommerso ed illegale connesso al settore”.

CRIMINALITÀ NELLA CITTÀ DI ROMA (pp. 410-432).  A Roma, definita dalla DIA “punto di incontro privilegiato tra organizzazioni criminali italiane e straniere”, sono operative mafie autoctone, nate e cresciute sul territorio anche come riflesso delle organizzazioni mafiose calabresi, siciliane e campane. Come queste ultime, anche le mafie romane “hanno adottato un metodo operativo che si caratterizza essenzialmente per la progressiva diminuzione delle componenti violente e militari, che hanno ceduto il passo alla ricerca di proficue relazioni di scambio e di collusione, finalizzate ad infiltrare il territorio romano”. Un radicamento favorito proprio da queste relazioni con referenti in grado di inserirsi nei circuiti economici legali, attraverso società collegate e gestite da esperti professionisti, attive nei settori degli appalti pubblici e dell’acquisizione indebita di finanziamenti statali. Una collaborazione che ha favorito l’aumento esponenziale dell’usura, “quale altra appetibile modalità di reinvestimento. Il fenomeno usurario e le connesse azioni intimidatorie sono ulteriormente proliferati anche in ragione del protrarsi di una difficile congiuntura economica, come quella attuale, che investe molteplici settori”. Un giro d’affari che si allarga anche al mercato degli stupefacenti, alle estorsioni e alle merci contraffatte.

“Le modalità di infiltrazione nella Capitale non si realizzano con un vero e proprio controllo del territorio, ma attraverso saldi contatti con i sodalizi di origine e stabilendo forme di convivenza fra tutte le anime mafiose presenti nella Capitale, ivi comprese quelle di matrice romana. Numerose indagini hanno evidenziato le relazioni tra i clan storici della città, a loro volta in affari con esponenti delle consorterie di matrice calabrese, siciliana e campana, da tempo stanziate nella provincia, le quali, peraltro, hanno tentato di occupare progressivamente il vuoto venutosi a creare a seguito della disgregazione della Banda della Magliana, per sviluppare reti e basi logistiche utili, all’occorrenza, anche per offrire rifugio ai latitanti”.

Fino all’inchiesta Mondo di Mezzo, che ha svelato l’esistenza dell’organizzazione nota come “Mafia Capitale”, era convinzione che i principali affari sul territorio fossero connessi all’attività di riciclaggio. A seguito di queste indagini, la DIA evidenzia “il cambiamento metodologico dei gruppi criminali, che talora procedono affiancando all’intimidazione violenta la sopraffazione imprenditoriale e la pervasiva colonizzazione del sistema burocratico-politico. Un’organizzazione che, avvalendosi dell’interazione del metodo intimidatorio con quello corruttivo, era riuscita ad inserirsi in alcuni settori della gestione amministrativa del Comune di Roma”.  Un evoluzione che consente di assimilare la criminalità romana alle mafie classiche perché, come queste ultime, “si avvaleva della forza di intimidazione derivante dal vincolo di appartenenza, pur rimanendo aderente alla realtà della Capitale ed al suo tessuto economico-imprenditoriale”.

PROIEZIONI DELLE MAFIE NELLE REGIONI ITALIANE (pp. 226-310) (clicca qui per leggere l’approfondimento)

LE MAFIE STRANIERE CHE OPERANO IN ITALIA (pp. 311-326). Forte e continua l’interazione tra mafie italiane e straniere che operano nel nostro Paese. Nelle regioni del Sud i clan stranieri operano con l’assenso delle mafie italiane, mentre al Nord godono di una maggiore autonomia. Stupefacenti, armi, reati legati all’immigrazione clandestina, alla tratta degli esseri umani (lavoro nero e prostituzione) e contraffazione sono i principali settori illeciti che vedono operativi i clan stranieri.

“Nel composito mosaico della criminalità di matrice etnica emerge, a fattor comune, come i sodalizi stranieri rappresentino, da un lato, la diretta promanazione di più articolate e vaste organizzazioni transnazionali, dall’altro l’espressione di una presenza sul territorio nazionale consolidatasi nel corso del tempo: in entrambi i casi, le attività criminali censite dalle inchieste giudiziarie offrono solo uno spaccato minimale delle potenzialità operative di una criminalità straniera integrata e sempre più transnazionale, in grado di gestire efficacemente le filiere illecite, abbattendone i costi logistici”.

La criminalità albanese resta la più attiva tra quelle che operano in Italia, grazie alla capacità di reclutare giovani leve. Le condotte si dimostrano sempre più violente, atte a risolvere anche conflitti tra gruppi.  Tra i settori di interesse si confermano il narcotraffico, lo sfruttamento della prostituzione ed i reati contro il patrimonio. La criminalità cinese concentra i propri interessi criminali nel favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, finalizzata al lavoro nero, alla prostituzione ed alla tratta degli esseri umani, nei reati contro la persona ed estorsioni in danno di connazionali, contraffazione di marchi e contrabbando di sigarette. Sono spesso reati-spia di altri reati economici, quali il riciclaggio e il reimpiego di capitali. La criminalità nigeriana è estremamente attiva nel traffico di sostanze stupefacenti e nello sfruttamento della prostituzione, oltre che nel favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, la tratta di esseri umani e la riduzione in schiavitù. Nel corso del tempo questi gruppi si sono via via integrati al tessuto criminale nel territorio di insediamento, sviluppando metodologie mafiose. Sono note le strutture denominate The Black Axe Confraternity e The Supreme Eiye Confraternity (SEC), “ramificate a livello internazionale e caratterizzate da una forte componente esoterica. Vengono, infatti, utilizzati riti di iniziazione chiamati ju-ju, molto simili al voodoo e alla macumba, propri della cultura yoruba, immancabilmente presenti in Nigeria, nella fase del reclutamento delle vittime. Tali riti diventano, poi, funzionali alla fidelizzazione delle connazionali, che una volta giunte in Italia vengono destinate alla prostituzione”. Tra le altre organizzazioni criminali di origine straniera operanti in Italia la DIA elenca la criminalità rumena, quella proveniente dai Paesi dell’ex blocco sovietico, la sudamericana e la nordafricana.

CONCLUSIONI (pp. 384-409). “La capacità delle mafie di rigenerarsi continuamente, di far avanzare quella linea della palma anche all’estero, replicando strutture con caratteristiche e comportamenti criminali analoghi a quelli delle regioni di origine, impone una riflessione sulle ragioni di tale complessità evolutiva. Più in particolare su cosa effettivamente sia la linfa delle mafie. Comprendere, in altri termini, le motivazioni che ancora oggi consentono alle mafie di alimentare le proprie fila, nonostante la forte azione repressiva dello Stato, sostenuta da una legislazione che resta all’avanguardia nel panorama internazionale. Su come, in particolare, le mafie continuino ad avere capacità attrattiva sulle giovani generazioni: non solo nel caso in cui esse siano espressione diretta delle famiglie, ma anche e soprattutto quando esse facciano parte di un bacino di reclutamento più generale da cui attingere manovalanza criminale. Una distinzione che va sottolineata perché se da una parte pone la questione della successione nella reggenza delle cosche, dall’altra non appare certamente disgiunta da una crisi sociale diffusa che, soprattutto nelle aree meridionali, non sembra offrire ai giovani valide alternative per una emancipazione dalla cultura mafiosa. D’altro canto, le evidenze investigative degli ultimi anni danno conto oltre che di una modernizzazione delle strategie criminali, anche di un sensibile abbassamento dell’età di iniziazione mafiosa”.