La Corte di Cassazione (sezione penale) prende in esame un caso che riguarda la sussistenza del danno per una pubblica amministrazione, in ragione della condanna dei propri amministratori per i reati relativi agli articoli 319 e 319 bis del c.p. (corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio).

A conclusione del procedimento penale, infatti, inizialmente, gli amministratori erano stati condannati al pagamento di somme corrispondenti ai “danni effettivamente subiti” dall’Amministrazione, in ragione dei reati commessi. Ma a seguito del riesame, in appello, l’Amministrazione era stata costretta a restituire le somme versate a titolo di provvisionale.

In appello è il Comune ad avere ragione ottenendo il risarcimento del danno all’immagine, in conseguenza degli episodi di corruzione, ottenendo così un risarcimento, in via equitativa, tenendo conto della gravità dei fatti emergenti dalle sentenze penali.

Avverso questa decisione, i soggetti soccombenti ricorrono alla Corte di Cassazione, a asserendo che  “anche quando il fatto illecito integra gli estremi del reato, la sussistenza del danno non patrimoniale non può mai essere ritenuta in re ipsa, ma va sempre debitamente allegata e provata da chi lo invoca, anche attraverso presunzioni semplici”. Da ciò conseguirebbe la necessità che il Comune fornisca la prova del danno subito.

La Corte suprema, invece, rigetta l’ultimo ricorso, sostenendo le ragioni dell’Amministrazione e il conseguente diritto al risarcimento, affermando:

1) che i reati di corruzione commessi da rappresentanti di un ente pubblico sono suscettibili di produrre offesa al decoro e al prestigio delle istituzioni;

2) che in conseguenza di tali reati deve essere riconosciuto il danno all’immagine dell’Ente e che tale danno risulta dal rilievo giornalistico;

3) che la vicenda ha avuto un impatto negativo sulla popolazione, inducendo sfiducia sul corretto funzionamento dell’Amministrazione, tradottosi in una lesione dell’Amministrazione dell’Ente.

 

Allegato: sentenza Corte di Cassazione n. 8394 del 2015

Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza 11 dicembre 2014 – 24 aprile 2015, n. 8394 Presidente Berruti – Relatore D’Amico

Svolgimento del processo

F.G. convenne in giudizio, dinanzi al Tribunale di Sanremo, il Comune di Sanremo, A.A. , T.R. , B.A. , N.S. e G.A. esponendo: 1) che con la sentenza della Corte di cassazione in sede penale egli, unitamente ai detti A.A. , T.R. , B.A. , N.S. e G.A. , era stato riconosciuto colpevole dei reati di cui agli artt. 319 e 319 bis c.p. e condannato in solido con gli altri imputati al pagamento a favore della parte civile (Comune di Sanremo) di una provvisionale di l. 200.000.000; 2) che era suo interesse fare accertare il quantum dei danni effettivamente subiti dal suddetto Comune; 3) che nel merito nessun danno aveva in concreto subito quest’ultimo per i fatti ad esso addebitati.

Tanto premesso l’attore F.G. chiese che il Tribunale accertasse l’inesistenza di ogni e qualsiasi danno materiale o morale per il Comune di Sanremo e in via subordinata determinasse la misura dell’eventuale importo dovuto a titolo di risarcimento del danno nel limite della provvisionale disposta dal giudice penale.

Si costituì in giudizio il Comune di Sanremo che contestò le asserzioni di controparte e la fondatezza della domanda attrice. Si costituirono anche A.A. , B.A. e G.A. associandosi alle istanze attrici e chiedendo che il Tribunale riconoscesse che nulla era dovuto al Comune di Sanremo a titolo di risarcimento.

Restarono contumaci N.S. e T.R. .

Il Tribunale di Sanremo dichiarò che nessun danno, di natura patrimoniale o non, era stato patito dal Comune di Sanremo in conseguenza degli illeciti penali accertati in via definitiva a carico di F. , A. , T. , G. , B. e N. . Con la medesima sentenza e in accoglimento della domanda riconvenzionale proposta dagli interessati, il suddetto Tribunale condannò il Comune di Sanremo a restituire ad A. e B. le somme da essi versate a titolo di provvisionale.

Il Comune di Sanremo propose appello in ordine all’an e al quantum del risarcimento.

Si costituirono F.G. , A.A. e gli eredi di B.A. eccependo la novità della prospettazione in appello del danno sotto il profilo dell’afflizione dei cittadini, mentre rimasero contumaci G.A. e N.S. . La Corte d’appello ha riconosciuto il risarcimento del danno all’immagine del Comune in conseguenza degli episodi di corruzione degli amministratori comunali ed ha liquidato il danno in via equitativa tenendo conto della gravità dei fatti emergenti dalle sentenze penali. Ha condannato in solido F. , A. , G. , N. nonché, nei limiti della quota ereditaria, B.A. , B.V. e Te. Mi. , quali eredi di B.A. , e T.P. , quale erede di T.R. , a pagare al Comune di Sanremo la somma di Euro 103.291,37, oltre le spese del giudizio.

Propongono ricorso per cassazione B.V. , B.A. , Te.Mi. e A.A. con due motivi.

A.A. presenta memoria di costituzione di nuovo difensore ex art. 83, 3 comma, c.p.c..

Resiste con controricorso il Comune di Sanremo che presenta memoria.

Gli altri intimati non svolgono attività difensiva.

Motivi della decisione

Con il primo motivo si denuncia “violazione e falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c. in relazione al vizio di cui all’art. 360 n. 3 c.p.c.”.

Ad avviso dei ricorrenti, diversamente da quanto affermato dalla Corte d’appello di Genova, l’appello proposto dal Comune di Sanremo è fondato su un inammissibile elemento di novità rispetto al fatto dedotto originariamente in prime cure, come motivo posto a fondamento della domanda di risarcimento del danno non patrimoniale, asseritamente subito a seguito degli illeciti penali commessi dagli appellati.

Ritengono i ricorrenti che in primo grado il Comune di Sanremo chiedeva il risarcimento del danno non patrimoniale per il danno arrecato all’immagine del Comune stesso sotto il profilo del prestigio e della credibilità delle istituzioni, mentre in appello chiedeva il danno morale per i danni subiti dai suoi cittadini attraverso l’Ente che li rappresentava.

Pertanto, ad avviso dei ricorrenti, dall’esame delle domande risulta chiara la novità della domanda.

Il motivo è infondato.

Si ha mutatio libelli quando si avanzi una pretesa obiettivamente diversa da quella originaria, introducendo nel processo un petitum diverso e più ampio oppure una causa petendi fondata su situazioni giuridiche non prospettate prima e particolarmente su un fatto costitutivo radicalmente differente, di modo che si ponga al giudice un nuovo tema d’indagine e si spostino i termini della controversia, con l’effetto di disorientare la difesa della controparte ed alterare il regolare svolgimento del processo; si ha, invece, semplice emendatio quando si incida sulla causa petendi, in modo che risulti modificata soltanto l’interpretazione o qualificazione giuridica del fatto costitutivo del diritto, oppure sul petitum, nel senso di ampliarlo o limitarlo per renderlo più idoneo al concreto ed effettivo soddisfacimento della pretesa fatta valere (Cass., 20 luglio 2012, n. 12621).

Nella specie, come correttamente stabilito dalla sentenza della Corte d’appello, non è ravvisabile nell’argomentazione dell’atto di appello del Comune di Sanremo nessun inammissibile elemento di novità, non essendosi in presenza né di mutatio né di emendatio libelli in quanto la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale da reato subito dall’ente per la lesione alla sua reputazione è rimasta invariata, introducendosi soltanto nuove argomentazioni difensive a sostegno della sussistenza di tale danno. Si rileva infatti in proposito che l’afflizione patita dai cittadini non costituisce una ipotesi autonoma e distinta di danno rispetto a quello patito dall’ente, ma un mero riflesso o atteggiarsi di questo.

Con il secondo motivo parte ricorrente denuncia “violazione e falsa applicazione del disposto degli artt. 2697 e 1226 c.c., 115 c.p.c. e 651 c.p.p. in relazione ai vizi di cui all’art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c.”.

Ritengono i ricorrenti che la statuizione del giudice penale sull’an debeatur non costituirebbe prova sufficiente, nel giudizio civile, per dimostrare l’effettiva sussistenza di un danno risarcibile; pertanto la Corte d’appello, in difetto di altri elementi probatori forniti dal Comune di Sanremo, avrebbe errato nel considerare raggiunta tale prova e nel condannare essi ricorrenti al conseguente risarcimento.

Sempre ad avviso di questi ultimi nessun elemento probatorio, ai fini della sussistenza e della liquidazione del danno in sede civile può infatti trarsi dalla provvisionale liquidata in sede penale.

Il motivo è infondato.

Va ribadito il principio (Cass., Sez. 3, Ordinanza n. 8421 del 12/04/2011; S.U. 11/11/2008 n. 26972) secondo cui, anche quando il fatto illecito integra gli estremi del reato, la sussistenza del danno non patrimoniale non può mai essere ritenuta in re ipsa, ma va sempre debitamente allegata e provata da chi lo invoca, anche attraverso presunzioni semplici.

La struttura della responsabilità aquiliana presuppone che l’attore fornisca la prova del danno di cui chiede il risarcimento, non potendo ritenersi che il danno sia “in re ipsa“, e cioè coincida con l’evento, poiché il danno risarcibile, nella struttura della responsabilità aquiliana, non si pone in termini di automatismo rispetto al fatto dannoso (restando, quindi, un danno – conseguenza che non coincide con l’evento, che è un elemento del fatto produttivo del danno).

Sennonché tale principio è stato rispettato dalla sentenza impugnata che ha riconosciuto il danno in favore del Comune, non in quanto in re ipsa, ma sulla base di presunzioni semplici. Correttamente l’impugnata sentenza, non basandosi esclusivamente sulle risultanze penali, ha ritenuto: 1) che i reati di corruzione commessi da rappresentanti di un ente pubblico sono suscettibili di produrre offesa al decoro e al prestigio delle istituzioni; 2) che in conseguenza di tali reati andava riconosciuto il danno all’immagine del Comune e che tale danno risultava dal rilievo giornalistico, trattandosi di fatti commessi in sede di organizzazione del Festival di Sanremo; 3) che la vicenda de qua ha avuto un impatto negativo sulla popolazione, inducendo sfiducia sul corretto funzionamento dell’Amministrazione, tradottosi in una lesione dell’Amministrazione del Comune.

In conclusione il ricorso deve essere rigettato con condanna di parte ricorrente alle spese del giudizio di cassazione che si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente alle spese del giudizio di cassazione che liquida in Euro 10.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali ed accessori di legge.