La normativa e il caso. La legge regionale 5/2013 dell’Emilia-Romagna, come modificata, prevede all’art. 6 l’introduzione dello strumento del distanziometro (quantificato in 500 metri) rispetto ad una serie di luoghi sensibili puntualmente elencati (ed eventualmente ampliabili dal Comune sulla base di altre particolari esigenze). Con la delibera della Giunta regionale 831/2017, viene specificato che “il divieto (…) si applica sia con riguardo alla nuova apertura di sale giochi e sale scommesse sia alle sale giochi e sale scommesse in esercizio”; in questa sede, inoltre, viene previsto un periodo di sei mesi (prorogabile di ulteriori sei) tra l’accertamento della violazione della distanza e la chiusura per consentire una rilocalizzazione delle attività.
Il Comune di Bologna ha recepito queste previsioni nel Regolamento per la prevenzione e il contrasto delle patologie e delle problematiche legate al gioco lecito d’azzardo approvato il 14 maggio 2018.
Il caso. Avverso questi atti ha presentato ricorso straordinario al Presidente della Repubblica una titolare di un’attività di CTD per un bookmaker, sollevando una serie di censure anche rispetto al rigetto della richiesta di proroga e al provvedimento di chiusura dell’esercizio (in quanto non rispettoso del limite di 500 metri da un luogo sensibile, nello specifico un luogo di culto). Sul ricorso si è espresso il Consiglio di Stato con il parere definitivo 686/2021 che qui si analizza.
Sull’istruttoria. La ricorrente anzitutto lamenta un difetto di istruttoria rispetto al provvedimento di chiusura indirizzato nei suoi confronti.
Il Consiglio di Stato respinge questa censura, richiamando quanto espresso nelle leggi regionali sul gioco dell’Emilia-Romagna, nella delibera di Giunta 831/2017 e nel Regolamento del Comune di Bologna. Quest’ultimo, nello specifico, richiama una serie di studi scientifici, sia di rango nazionale (lo studio Eurispes) sia di interesse locale (il Rapporto per l’anno 2016 dell’Osservatorio Epidemiologico Metropolitano Dipendenze Patologiche-AUSL di Bologna), in cui emerge una crescita dei casi di ludopatia nel territorio comunale interessato. La lamentata carenza sul piano istruttorio non si configura, rispetto al provvedimento di chiusura, proprio perché in quest’ultimo sono specificamente indicati questi atti (e in particolare il Regolamento comunale) forniti di attività istruttoria.
Il principio di proporzionalità. Il Collegio si esprime contrariamente anche in ordine alla censura relativa all’asserita violazione del principio di proporzionalità degli atti impugnati.
Anche richiamando un’ampia giurisprudenza sul punto (tra cui, ad esempio, la sentenza 5223/2020 del Consiglio di Stato), si afferma che il test di proporzionalità (idoneità del mezzo, stretta necessità, adeguatezza) delle misure del distanziometro è da ritenersi correttamente superato dal momento che tali previsioni sono in grado di raggiugere l’obiettivo di tutelare le fasce più deboli della popolazione dalle insidie del gioco comportando, allo stesso tempo, il minor sacrificio possibile per il privato.
Tali considerazioni non sono intaccate dalla circostanza che vi sono altre forme di gioco, anche illegali, comunque a disposizione del consumatore che non possono essere vengono prese in esame: “la parzialità delle limitazioni adottate non ne esclude la legittimità, non potendosene negare adeguatezza, idoneità e proporzionalità rispetto agli obiettivi perseguiti, ancorché questi ultimi possano essere meritevoli e bisognosi di ulteriori ed anche più intensi interventi”.
Sulla proroga prevista dalla legge regionale. Il Collegio ha modo di esprimersi anche rispetto alla circostanza che “le disposizioni regolamentari disciplinatrici della materia non prevedono l’immediata chiusura degli esercizi esistenti nei luoghi in cui viene ad operare il limite distanziale, prevedendo che la stessa sia preceduta (…) da una comunicazione preventiva, costituente invito alla delocalizzazione nel termine di sei mesi; termine questo che può essere ulteriormente prorogato in presenza di determinate circostanze che comprovino la serietà dell’intento di delocalizzare”.
Si tratta, a parere del Consiglio di Stato, di un “rilevante elemento di tutela dell’operatore economico”, che ha così il tempo di “di svolgere tutte le attività necessarie al reperimento di nuovi locali continuando, nelle more, l’esercizio dell’attività, salvaguardando in tal modo sia i suoi interessi economici sia quelli lavorativi dei dipendenti che siano eventualmente impiegati nella struttura”.
Sull’effetto espulsivo. Il Consiglio di Stato, inoltre, è chiamato ad esprimersi in merito all’effetto espulsivo che, a detta della ricorrente, discenderebbe dall’applicazione del distanziometro. Tale censura sarebbe, tuttavia, sguarnita di prova poiché il ricorrente non ha prodotto “alcuna documentazione ovvero elaborato tecnico volto a dimostrare, in relazione alla disciplina urbanistica di zona del Comune, che, applicando i limiti distanziali per i luoghi sensibili individuati dall’ente, non residua alcuna possibilità di allocazione degli esercizi di raccolta del gioco e delle scommesse”. Anzi, sottolinea il Collegio che il Comune ha invece prospettato come vi siano state altre imprese, raggiunte dall’invito a delocalizzare, che hanno reperito altri locali in cui trasferire l’esercizio.
Pertanto, richiamando la sentenza 8298/2019 del Consiglio di Stato, si ribadisce che “in presenza della astratta possibilità di delocalizzazione in altre aree del territorio comunale, la sua difficile attuazione in concreto, in ragione del fatto che non risultano esistenti locali commerciali liberi, è elemento irrilevante, in quanto non si tratta di una conseguenza imputabile alla misura restrittiva oggetto di contestazione e, dunque, di una barriera all’ingresso di carattere normativo, ma piuttosto di un impedimento meramente fattuale, dipendente dallo stato di fatto dei luoghi”.
Sull’applicazione del distanziometro anche agli esercizi già autorizzati. Anche sul punto dell’applicazione dello strumento del distanziometro sia agli esercizi in attività che a quelli di futuro avvio, il Consiglio di Stato avalla la scelta del Regolamento comunale (che discende dall’impostazione a livello regionale): infatti, senza un’applicazione generalizzata del divieto, il risultato sarebbe quello di compromettere la finalità di tutela della salute e di creare delle disparità di trattamento tra gli operatori economici, favorendo nei fatti una categoria rispetto alle altre.
L’Intesa. Il Collegio recepisce anche l’orientamento, maggioritario in giurisprudenza, rispetto all’Intesa raggiunta in seno alla Conferenza Unificata Stato Autonomie locali. Respingendo la prospettazione che aveva fatto la ricorrente, viene ribadito come all’Intesa non possa essere attribuita efficacia vincolante (non essendo stata recepita con decreto) e, in ogni caso, si ribadisce che questa fa espressamente salve le “forme maggiori di tutela per la popolazione” previste da Regioni e Province Autonome.
(a cura di Marco De Pasquale, Master APC Università di Pisa)