Premessa. Il TAR per l’Emilia-Romagna, con la sentenza 856/2020, aveva respinto (e in parte dichiarato inammissibili) alcuni ricorsi di un operatore del gioco che mirava all’annullamento del distanziometro nel Comune di Bologna.
Lo stesso operatore ha quindi presentato appello al Consiglio di Stato che si è pronunciato con la sentenza 11426/2022 che qui si analizza. I giudici di Palazzo Spada hanno confermato la legittimità del distanziometro nel Comune di Bologna respingendo anche in secondo grado il ricorso dell’operatore.
Il rapporto tra legge regionale 5/2013 e le deliberazioni di Giunta regionale 831/2017 e 68/2019. Un primo motivo di doglianza per il privato ricorrente è dato dal rapporto tra la legge regionale 5/2013 e le deliberazioni di Giunta regionale 831/2017 e 68/2019. Sostiene l’appellante, infatti, che la Giunta regionale, con le impugnate deliberazioni, anziché limitarsi a definire le “modalità attuative” del distanziometro fissato dall’art. 6, comma 2 bis della legge n. 5/2013 avrebbe illegittimamente proceduto in assenza di adeguata copertura legislativa estendendo il divieto alle sale gioco già operanti al momento della sua entrata in vigore, attribuendo agli enti locali potestà non soltanto ricognitive (c.d. “mappatura dei luoghi sensibili”), ma anche di carattere conformativo, cautelare e sanzionatorio, e addirittura prevedendo ex novo l’operatività del divieto distanziale anche in ipotesi di sopravvenienza di luoghi sensibili, esponendo a rischio di chiusura tutte le sale giochi e le sale scommesse presenti sul territorio, comprese quelle che risultavano rispettare le distanze dai luoghi sensibili contemplati dalla legge regionale.
I giudici di Palazzo Spada respingono queste censure, a partire dal dato letterale della norma (art. 6, comma 2-bis, della legge regionale n. 5 del 2013: “Sono vietati l’esercizio delle sale da gioco e delle sale scommesse di cui agli articoli 1, comma 2 e 6, comma 3 ter, della presente legge, i punti di raccolta delle scommesse (c.d. corner) di cui all’articolo 38, commi 2 e 4, del decreto legge 4 luglio 2006 n. 223 […] nonché la nuova installazione di apparecchi per il gioco d’azzardo lecito di cui all’articolo 110, comma 6, del R.D. n. 773 del 1931” a distanza inferiore a 500 metri da uno dei punti sensibili individuati dalla disposizione per categorie generali).
Conferma il Consiglio di Stato che solo per la terza fattispecie individuata dalla norma il legislatore regionale ha inteso riferire il divieto alla “nuova installazione”, mentre per le altre due ha vietato l’esercizio, ivi incluso quello in sale gioco e sale scommessa già attive.
Anche rispetto al compito di “mappatura dei luoghi sensibili” in capo ai Comuni interessati, i giudici confermano che esso in via principale è connotato da un effetto meramente ricognitivo, avendo la legge regionale chiaramente individuato la destinazione funzionale dei siti sensibili, con la determinazione della Giunta regionale che si è limitata a regolare la “modalità attuativa” del divieto in relazione alla necessità della c.d. delocalizzazione, stabilendone procedimento e tempi di attuazione. Dunque, scrive il Collegio, “l’assemblea legislativa ha dettato, quanto ai limiti di distanza, delle disposizioni “sicuramente incisive e cogenti”, cui la Giunta regionale si è limitata a dare attuazione”.
Il distanziometro e gli strumenti urbanistici. L’operatore lamenta la violazione delle garanzie partecipative in sede di formazione degli strumenti urbanistici sancite dalle specifiche disposizioni regionali in materia di governo del territorio.
Il Consiglio di Stato rigetta questa doglianza, ritenendo da un lato che la deliberazione impugnata non ha, di per sé, svolto alcuna funzione di governo del territorio e, dall’altro, che nemmeno le finalità delle norme attributive regionali siano da riconnettere ad attività di gestione del territorio, ma piuttosto a quelle di tutela della salute; così, dunque, anche per le disposizioni comunali concernenti il distanziometro.
Sull’effetto espulsivo. Lo snodo centrale della sentenza è costituito dall’asserito effetto espulsivo che, secondo l’appellante, discenderebbe dall’applicazione del distanziometro.
Nel giudizio che si sta esaminando, in particolare, era stata disposta una verificazione, affidata ad un docente universitario, per istruire sul piano fattuale le doglianze sollevate da parte attrice.
Tra i punti acquisiti dalla verificazione è emersa, in particolare, l’esistenza sul piano concreto di aree disponibili all’interno del territorio comunale per l’insediamento delle attività di gioco lecito tali da rendere “la localizzazione delle attività legate al gioco lecito probabile e praticabile, sia dal punto di vista delle potenzialità urbanistiche, sia della realtà del mercato urbano immobiliare locale”. Ciò consente di escludere un effetto espulsivo, anche soltanto di fatto, per le attività del gioco.
Ciò è particolarmente rilevante perché, secondo il Collegio, “la violazione del principio di proporzionalità nei confronti dei titolari degli esercizi soggetti a chiusura si potrebbe configurare, non solo ove l’imposizione dei limiti distanziali determinasse nel territorio comunale la totale inibizione allo svolgimento dell’attività di esercizio di punti di gioco e di raccolta di scommesse, ma anche se l’individuazione delle aree destinate rendesse impossibile la delocalizzazione delle attività esistenti, per insufficienza quantitativa o per limitazioni urbanistico edilizie, secondo una valutazione che si ritiene debba essere fatta in concreto e non in astratto rilevando, per gli esercizi costretti a delocalizzare entro un tempo predeterminato, gli impedimenti anche soltanto meramente fattuali”.
Gli esiti della verificazione consentono di escludere ogni effetto espulsivo appunto perché non è rimasto precluso lo svolgimento dell’attività della ricorrente ma solo imposta una delocalizzazione della medesima, in concreto non impossibile.
La legittimità del distanziometro anche rispetto al rischio di “marginalizzazione” del gioco. Il distanziometro costituisce, secondo il Consiglio di Stato (già CDS 686/2021), una misura che “attraverso la riduzione delle occasioni di gioco” consente di salvaguardare “fasce di consumatori psicologicamente più vulnerabili ed immaturi e, quindi, maggiormente esposti alla capacità suggestiva dell’illusione di conseguire, tramite il gioco, vincite e facili guadagni”, rendendo con le limitazioni spaziali “maggiormente difficoltoso, specie per le categorie a rischio, l’incontro con l’offerta di gioco”.
Non rileva, secondo i giudici, la considerazione contraria, secondo cui “la marginalizzazione dei centri di raccolta potrebbe favorire situazioni di maggiore illegalità, dato che risulta perseguita la finalità principale della legislazione statale di ridurre le occasioni di gioco lecito, malgrado la necessità di ulteriori interventi di diversa natura”.
Le proroghe per rilocalizzare. I giudici mostrano un generale apprezzamento per la disciplina regionale che prevede una serie di proroghe (fino a 18 mesi, a certe condizioni) per la rilocalizzazione dei punti gioco.
Un’ulteriore prescrizione legislativa è relativa alla possibilità, concessa agli operatori economici che hanno già delocalizzato, di mantenere nello stesso luogo l’attività per un massimo di dieci anni nel caso in cui, rispetto alla nuova ubicazione, venga a trovarsi successivamente un luogo sensibile prima non esistente.
Si tratta di una disposizione che il Consiglio di Stato reputa legittima e non discriminatoria verso coloro che (come l’appellante) non abbiano mai delocalizzato, ma siano stati costretti al trasferimento in esito soltanto alla prima mappatura. Trattandosi di situazioni differenti (chi ha già subito una prima misura di delocalizzazione che ha inciso sull’attività economica, e chi invece è alla prima delocalizzazione) è giustificato, secondo il Collegio, un trattamento differenziato.