Premessa in diritto. L’articolo 9 del Decreto Legge 87/2018 convertito dalla Legge 96/2018 (cd. Decreto Dignità) ha introdotto nel nostro ordinamento il divieto di realizzare pubblicità, anche indiretta, comunque effettuata e su qualunque mezzo, relativa a giochi o scommesse con vincite di denaro nonché al gioco d’azzardo, prevedendo la comminazione di una sanzione pecuniaria per la violazione di tale divieto.

L’art. 16 del D.lgs. 70/2003, applicabile al caso di specie, prevede (in conformità alla Direttiva 2000/31/C) che “nella prestazione di un servizio della società dell’informazione, consistente nella memorizzazione di informazioni fornite da un destinatario del servizio, il prestatore non è responsabile delle informazioni memorizzate a richiesta di un destinatario del servizio” solo se esso “non sia effettivamente a conoscenza del fatto che l’attività o l’informazione è illecita” e che “non appena a conoscenza di tali fatti, su comunicazione delle autorità competenti, agisca immediatamente per rimuovere le informazioni o per disabilitarne l’accesso”. Si tratta, dunque, di una deroga a un regime di responsabilità che, secondo la giurisprudenza, può applicarsi esclusivamente ai cd. “hosting provider passivi” (ossia quei servizi di rete che svolgono un servizio meramente tecnico, automatico e passivo).

Premessa di fatto. Nel caso di specie, Agcom nel 2020 ha sanzionato la società Google per violazione dell’art. 9 del Decreto dignità in quanto, nei giorni 14 e 15 novembre 2019, digitando le parole chiave “Casinò online”, compariva su Google Web Search, come annuncio pubblicitario, il link ad un sito internet che a sua volta conteneva una lista di link ad ulteriori siti web che, in alcuni casi, consentivano di giocare a pagamento online.

Avverso tale sanzione, Google ha presentato ricorso al TAR Lazio che, con la sentenza 11036/2021, ha accolto le doglianze della multinazionale, ritenendo applicabile nel caso di specie la deroga di cui all’art. 16 del D.lgs. 70/2003, considerando la Direttiva UE su cui si fonda il D.lgs. 70/2003, espressione di un principio generale.

Agcom ha dunque presentato appello avverso tale pronuncia: il Consiglio di Stato, con la sentenza 4277/2024 che qui si analizza ha accolto l’appello di Agcom, confermando la sanzione a Google (benché diminuendone l’importo).

La qualifica di Google come hosting provider attivo. Il nucleo centrale della pronuncia del Consiglio di Stato risiede nella considerazione che Google non può essere qualificato quale hosting provider passivo e, dunque, non può giovarsi in via diretta (ma nemmeno indiretta) della deroga contenuta nell’art. 16 del D.lgs. 70/2003. Argomentano i giudici che “la società svolge, mediante una gestione imprenditoriale, un servizio di indicizzazione e promozione di contenuti di terze parti non rimanendo, pertanto, ‘neutrale’ rispetto a detti contenuti ma promuovendoli sul mercato e avendo al riguardo un proprio interesse economico alla buona riuscita di tale promozione”.

Resta in ogni caso ferma, nella pronuncia del Collegio, la considerazione che tale art. 16 non è applicabile alla fattispecie in esame perché la Direttiva 2000/31/CE esclude testualmente dal proprio ambito di applicazione (art. 1, comma 5) “i giochi d’azzardo che implicano una posta pecuniaria in giochi di fortuna, comprese le lotterie e le scommesse”. Tale esclusione deve considerarsi tout court, secondo il Consiglio di Stato, visto che l’ambito di applicazione della Direttiva riguarda “l’informazione in linea, la pubblicità in linea, la vendita in linea, i contratti in linea”.

La non applicazione, nemmeno in via indiretta, della deroga di cui all’art. 16 del D.lgs. 70/2003. Viene esclusa, inoltre, la possibilità di applicare in via indiretta tale regola, smentendo sul punto le conclusioni del TAR. L’applicazione analogica dell’art. 16, infatti, potrebbe operare in presenza di una lacuna dell’ordinamento (cui l’analogia fornirebbe criterio di integrazione). Nel caso di specie, tuttavia, non ricorre questa circostanza, essendo l’art. 16 stesso una deroga rispetto alle regole generali in materia di responsabilità. In assenza dei presupposti (hosting provider passivo) devono ritenersi applicabili le regole generali.

La sussistenza dell’illecito amministrativo e la quantificazione della sanzione. Il Consiglio di Stato riconosce, dunque, la violazione del divieto di pubblicità, ritenendo Google responsabile a seguito di verifica dell’esistenza dell’elemento soggettivo dell’illecito. La condotta richiesta dal Decreto dignità non è, infatti, secondo il Collegio, “di per sé inesigibile, anche laddove si sia in presenza (…) di intermediari di dimensioni mondiali che pubblicano giornalmente un massivo quantitativo di annunci pubblicitari, dal momento che proprio tali grandi numeri impongono a detti soggetti di dotarsi di adeguati sistemi organizzativi, anche di tipo automatizzato e con ricorso a strumenti di intelligenza artificiale, per prevenire, nei limiti di quanto esigibile, le prescrizioni poste dal legislatore nazionale a tutela di un interesse pubblico ritenuto particolarmente rilevante (id est il contrasto alla ludopatia)”.

L’illecito, tuttavia, viene considerato come un’unica violazione del precetto e come tale assoggettato alla sanzione di 50.000 euro.

Il seguito della sentenza. Alla sentenza appena esaminata ha fatto successivamente riferimento anche l’ordinanza 1947/2024 del Consiglio di Stato, rispetto alla controversia tra Agcom e Meta, ritenendo “l’applicabilità alla fattispecie concreta in esame dei principi enucleati da questa Sezione, con riguardo a vicenda analoga a quella che occupa, con sentenza n. 4277 del 2024” e rinviando la discussione di merito della causa alla pubblica udienza del prossimo 26 settembre.